Nella scena finale del film “Mandingo”, uscito nel 1975, si assiste alla lotta furibonda tra il padrone bianco e lo schiavo negro, termine quest’ultimo all’epoca politicamente corretto, e il bestione di colore muore con un forcone infilzato nello stomaco. Da quando ho visto la foto dell’afroamericano con un ratto gigante del Gambia infilzato in un forcone da fieno, non riesco a togliermi dalla testa quel film.
Ormai, con i commerci che fanno viaggiare le merci in ogni più sperduto angolo del mondo, non ci si deve stupire che un mammifero gambiano sia finito nella Grande Mela. Come da molti anni a Genova ci sono quei velenosi ragni chiamati vedove nere, arrivati dentro i caschi di banane, così a New York, altra città portuale, via nave può arrivare di tutto.
Quel nuovaiorchese ignorante del quartiere di Marcy Houses [1], trovandosi di fronte a un ratto di grosse dimensioni, ha dato ascolto al suo istinto di selvaggio e si è adeguato alla consuetudine antica che vuole il ratto nemico acerrimo dell’essere umano, con l’uomo che compie giustizia sommaria al solo apparire di un individuo dalle sembianze rattesche. Della serie: sparate a vista. E non fate prigionieri. Ci sono al mondo più di 5.000 specie di roditori, quasi ogni giorno se ne scopre una nuova e solo di ratti ci sono 550 specie diverse, tutte utili agli ecosistemi e tutte pulite e piacevoli esteticamente. Tutte tranne una, il Ratto delle Chiaviche, che vive opportunisticamente in mezzo ai nostri rifiuti e ai nostri escrementi. Sarà per questo che lo odiamo così visceralmente: perché a livello inconscio odiamo noi stessi, la nostra animalità.