lunedì 12 marzo 2012

Hodgkin o non hodgkin?



“Essere o non essere, vivere o non vivere?”, si chiedeva il triste Principe Danese. Marco invece non aveva dubbi. Sapeva fin dall’inizio del suo calvario che sarebbe vissuto. Se fossi credente direi che c’era un progetto per lui nella mente di Dio. Più laicamente dico che la vis sanatrix naturae, già conosciuta dagli antichi, ha avuto la meglio. E’ così che dovrebbe funzionare, per tutti, se non intervenissero altri fattori frenanti, se non dei veri e propri attentati alla guarigione dei malati, messi in opera dalle strutture ospedaliere.
Delle quali, sia detto subito, non si può parlarne male in toto: si deve salvare almeno la buona fede di tanti onesti operatori che vi lavorano, tranne nel caso di casi conclamati di malasanità.
Il meccanismo diabolico che porta a fare innumerevoli vittime è sistemico e va studiato nella sua globalità, specie per quanto concerne le pressioni da parte delle multinazionali farmaceutiche sugli indirizzi di ricerca e sui protocolli applicativi delle cure. Si potrebbe parlare di Nemesi se si pensa che sono milioni gli animali torturati per il bene – presunto - dell’umanità e, parallelamente, sono milioni gli esseri umani che vengono a loro volta torturati e alla fine accorciano la loro stessa vita. Il confine tra dolo e buona fede è labile e ogni caso va esaminato singolarmente. E’ ciò che intendo fare qui, ora.

Marco non aveva ancora trent’anni quando si recò dal suo medico di base per una congestione nasale, accompagnata da sintomi
influenzali. La dottoressa gli diede una cura di aerosol, che il giovane seguì per due settimane, ma il mal di testa rimaneva. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quello era l’inizio del calvario, considerando che solo due mesi prima aveva fatto l’esame del sangue e i medici gli avevano detto che aveva una salute di ferro e, celiando, che sarebbe vissuto in eterno.
Ma, dopo due settimane ebbe la prima crisi epilettica. La prima in assoluto nella sua vita. Il climax dell’attacco durò sui tre minuti, ma ci volle un po’ più di tempo perché ritornasse in sé. Per fortuna, in casa c’era la sua ragazza, che gli impedì di buttarsi dal primo piano perché, volendo andare in bagno, Marco aveva sbagliato strada e voleva scavalcare la finestra che dava sulla strada. In stato confusionale stava per ammazzarsi con una caduta, o almeno per rompersi una gamba.
L’ambulanza arrivò subito e in ospedale a Udine lo trattennero venti giorni. Gli fecero subito una TAC, per sospetta meningite e, fra gli altri esami, anche quello del liquido spinale. Era solo l’inizio della sua “carriera” di puntaspilli, che avrebbe reso le sue braccia come quelle di un tossicodipendente, a forza di buchi. A prenderlo in carico al pronto soccorso fu il dottor Rana, che lo seguì per tutta la degenza. Gli altri medici che lo esaminarono ebbero spesso atteggiamenti di reticenza, cercando di non assumersi responsabilità, e su tutti primeggiava il dottor Gigli, che si comportava più come un agente di pubbliche relazioni di se stesso che come un medico, segno che la sindrome dei baroni è più diffusa di quanto si creda. Nessuno poteva contraddire il parere del….luminare.

Quando lo dimisero aveva ancora febbre e dolori al collo, ma gli dissero che sarebbero passati presto. E invece, dopo due settimane a casa, Marco ebbe la sua seconda crisi epilettica e fu nuovamente portato all’ospedale di Udine sotto la supervisione del dottor Gigli, ma questa volta lo tennero dentro tre mesi. Gli fecero un’altra TAC e cominciarono una terapia di antibiotici. Stavolta si cominciava a parlare di ascesso cerebrale, grazie al fatto che la tomografia assiale computerizzata mostrava una massa scura nel cervello.
In più, si era formato un edema cerebrale che, andando a premere sull’encefalo, produsse in Marco una paralisi della parte destra del corpo, compresa la cecità dell’occhio destro e altre spiacevoli conseguenze come l’afasia e l’incontinenza. Poi arrivarono le dosi da cavallo di cortisone, che sortirono l’effetto di far calare la massa edematosa. Di conseguenza, venendo meno la pressione sul cervello, Marco riacquistò le normali funzioni fisiologiche.
A quel punto, i medici devono aver pensato: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. E il gioco consistette nell’aprire la scatola cranica del paziente con una biopsia invasiva, ma ancora nessuno si azzardava ad avanzare ipotesi, nemmeno il dottor Rana che lo aveva seguito fin dall’inizio.
Nel dubbio astieniti è un detto che vale per le persone normali, ma evidentemente non per i medici, poiché, nel dubbio, continuarono con la somministrazione di antibiotici e del Decatron, il cortisone, il cui nome ha una strana rassomiglianza con l’angelo Metatron e se pensiamo che la casta dei medici, in epoca moderna, si è sostituita a quella dei sacerdoti, in un medicinale che porta un nome angelico abbiamo un altro indizio dell’alone religioso che circonda i dottori biancovestiti. Lo stetoscopio al posto della stola e della mitria.
Nonostante la stadiazione, altro nome della biopsia, i dottori non ci si raccapezzavano. Così andarono avanti facendo a Marco una TAC e una risonanza magnetica alla settimana, alternate. Siccome il cortisone, oltre a gonfiare l’organismo, mette fame, per Marco era un vero supplizio rimanere a digiuno in attesa di sottoporsi alle risonanze, considerato che se magari venivano programmate per le dieci del mattino, poteva capitare che le facessero alle tre del pomeriggio, a causa dei normali disservizi che capitano in tutti gli ospedali.
Quando i medici di Udine avanzarono la proposta di fare una seconda biopsia, la sua ragazza rispose loro: “La testa di Marco non è
un uovo di Pasqua!” e fu a quel punto che, esasperata per le troppe titubanze, la donna si fece dare le cartelle cliniche e andò all’ospedale Borgo Trento di Verona, dove avanzarono l’ipotesi che si trattasse di un linfoma e suggerirono di cambiare terapia senza mettersi contro i colleghi di Udine e senza sbilanciarsi troppo. Anzi, le suggerirono di recarsi direttamente al San Raffaele di Milano, un centro d’eccellenza della sanità italiana.
Fu così che il 20 ottobre del 2000 un’autoambulanza della C.R.I. partì da Palmanova, caricò Marco e lo depositò a mezzanotte al pronto soccorso del San Raffaele. Siccome era sempre stato cosciente, poté fare un confronto tra come era stato trattato a Udine e come veniva trattato a Milano. Per precauzione, lo accolsero a Ville Turro, la succursale annessa degli infettivi. Il viaggio avrebbe dovuto essere a carico del paziente (si trattava di un milione di lire), ma fu la Croce Rossa ad accollarsi l’onere, segno che a volte le cose funzionano anche in Italia, come se fossimo un paese civile.
A Milano dovettero ricominciare tutte le analisi daccapo, per esser sicuri di non commettere errori. Anche se le vene delle braccia cominciavano a non farsi più trovare, Marco si accorse che tirava tutta un’altra aria. Non c’erano primari in cerca di gratificazioni egoiche e tutti i medici sapevano tutto di lui. Molto probabilmente facevano dei briefing come si vede nella serie televisiva del dottor House. Tutti si davano molto da fare, professionalmente, e nessuno temeva di compromettersi con diagnosi sbagliate.
Si accorsero subito che non era un infettivo, gli tolsero gli antibiotici e lo spostarono in neurochirurgia. Gli fecero una seconda stadiazione, con molta più delicatezza, o almeno questa fu la sua impressione. Dopo quindici giorni dal suo arrivo a Milano arrivò la “sentenza”: tumore al cervello, tecnicamente chiamato linfoma non Hodgkin, di tipo primitivo, cioè senza metastasi. Poiché al San Raffaele esiste il Centro Nazionale Linfomi, Marco fu trasferito presso il reparto di ematologia del dottor Ferreri, che lo sottopose a quattro cicli di chemioterapia sperimentale.
Sperimentale perché di quel tipo di cancro si conoscevano solo cinque casi nel mondo, di cui gli altri quattro erano deceduti e quindi il paziente fu trasformato in cavia umana e studiato ben bene, tanto che il suo caso finì negli annali medici anche negli USA.
E’ a questo punto, quando arriva la “sentenza”, che molti si fanno prendere dal panico e, secondo la Nuova Medicina Germanica, è proprio la paura ad aggravare la situazione e a far precipitare le cose. Non così con Marco, che sapeva fin dall’inizio che sarebbe guarito, perché così si era messo in testa di fare.
Per chi non lo sapesse – e io prima d’intervistare Marco ero fra questi – la chemioterapia consiste in iniezioni di farmaci che impediscono alle cellule di riprodursi, sia quelle sane che quelle malate, con la differenza che quelle sane, finita la terapia, riprendono il normale funzionamento, mentre quelle cancerose no. La vera e propria chemioterapia dura tre giorni, ma è preceduta e seguita da idratazione e altri trattamenti, così che il paziente rimane con la flebo al braccio complessivamente per una quindicina di giorni. Siccome le vene di Marco erano in uno stato pietoso e anche l’apparecchio chiamato “Infusa-port” non poteva essergli applicato sul petto, i medici dovettero intubarlo nella giugulare del collo e nella femorale dell’inguine.
Oltre ad essere bucherellato in varie parti del corpo, Marco si sottopose a ventiquattro sedute giornaliere di radioterapia, della durata di dieci minuti l’una. Secondo quanto spiegatomi dal giovane, oggi quarantenne padre felice di due bei bambini, nella radioterapia si usano gli stessi raggi X delle diagnosi, ma molto più concentrati e indirizzati in un punto preciso del cervello. Per far ciò, per prima cosa gli fecero una maschera in silicone su misura, dotata di legacci per immobilizzare la testa e la usarono, disteso su un lettino, per tutti i ventiquattro giorni del trattamento, che viene praticato con il paziente in stato di coscienza. La maschera lo faceva somigliare ad Hannibal Lecter e a suo dire la radioterapia è stata peggiore della chemio, per i disagi e per le conseguenze sul piano fisico. Le radiazioni e il cortisone gli procurarono infatti una cataratta e un abbassamento generale del calcio nelle ossa, tanto da costringerlo a farsi impiantare una protesi all’anca. Secondo i medici di Milano, inoltre, sarebbe diventato sterile e non avrebbe potuto generare figli, evento in seguito smentito dai fatti.
A questo punto, la storia a lieto fine di Marco non sarebbe completa se non si spendessero sue parole sul ruolo di quella che sarebbe diventata sua moglie e che intendo intervistare prossimamente.
Catya faceva e fa l’infermiera. Non lo salvò solo dal volo dal primo piano, durante la prima crisi epilettica, ma con la sua determinazione lo salvò dalle inette grinfie dei medici udinesi, portandolo a Milano. Ma non solo. All’insaputa di tutti, e soprattutto dei medici del San Raffaele, iniziò una cura omeopatica parallelamente alle cure classiche.
Cominciò con l’analisi del fegato di suo marito, che invece di collocarsi in un indice compreso tra il 20 e il 40, come dovrebbero essere tutti i fegati sani, a causa delle cure invasive e pericolose era schizzato a un indice di 1300, cioè come se fosse cirrotico.

Catya iniziò quindi a depurarlo dei metalli pesanti mediante il Geoxil, un medicinale naturale del costo di 500.000 lire. Trenta pastiglie, ovvero quasi 17.000 lire a pillola. Alla faccia dei rimedi naturali! Lasciatemelo dire.
Una volta rinforzati gli epatociti del fegato, la ragazza impose a suo marito una cura fitoterapica a base di cardo mariano, tarassaco e carciofo, naturalmente senza farlo sapere alla famiglia, ai medici che lo curavano e ai suoi colleghi di lavoro. Ora, a distanza di dodici anni, si può affermare che Marco si sia completamente ristabilito. Anche se nel prossimo mese di maggio Marco tornerà a Milano per un controllo, si può immaginare che la sua volontà di vivere e la determinazione della sua ragazza gli abbiano salvato la vita.
Comunemente si riconosce l’utilità di avere un medico in famiglia, o anche un avvocato o un carabiniere. Ecco, in certi casi, anche un’infermiera può andar bene. Meglio ancora se crede nelle cure naturali. Più che di farmaci salva-vita, si dovrebbe quindi parlare di persone salva-vita. Ma soprattutto, alla domanda amletica se sia meglio essere o non essere, se si vuole almeno tentare di guarire è indispensabile rispondere sempre: “Essere!”.

6 commenti:

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  2. Tu sei delirante.

    Descrivi il primo caso al mondo di guarigione di una malattia mortale e concludi dicendo che il tarassaco e il carciofo presi di nascosto gli hanno garantito una lunga e felice esistenza?

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  3. Anche il tuo commento, Graziella, è molto toccante.
    Non sapevo alcune cose dei tuoi genitori, come per esempio che tua madre fosse un'infermiera. Quarantasei anni fa i medici giocavano con la vita delle persone esattamente come adesso, ma erano meno tecnologici. Il risultato non cambia. Ancora oggi la fiducia della gente che si rivolge loro viene tradita.
    Grazie per il tuo bell'intervento.
    Ciao.

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  4. AF io non sto delirando. Io riporto la testimonianza di una coppia di miei compaesani. Se poi le erbe, insieme alla volontà di vivere, hanno aiutato Marco a guarire, è una possibilità.
    Di certo, i trattamenti invasivi non hanno giovato molto e se lui non avesse avuto un fisico resistente, forse non ce l'avrebbe fatta.

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  5. Non hanno giovato molto?!?! E` vivo! Dopo un tumore!

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    1. Dei cinque casi al mondo di quel tipo di tumore, lui è l'unico sopravvissuto. Bisognerebbe vedere se gli altri quattro hanno seguito solo le cure classiche o hanno provato anche con i rimedi naturali. Comunque, ribadisco che secondo me la voglia di vivere è stata la carta vincente della sua guarigione, più della chemio e della radioterapia.

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