mercoledì 23 aprile 2014

Amori e sconfitte dei liberatori di negri

 
Tratto da "2084 - L'apoteosi dell'arianità"  (1995)

Dopo aver restituito all'autonoleggio di Graz la vettura e il pullman, Debora, Corinna e Hermes tornarono in Italia, ciascuno nella propria casa, con l'altra automobile. Fu per tutti un felice ritorno, come la fine di un incubo, ma c'era ancora una spina nei loro fianchi anche se tra essi provocava dolore in modo diverso: la più afflitta, manco a dirlo, era Jenny poiché se Marcello per gli altri era solo un amico, o tuttalpiù un complice, per lei era molto di più. Appena tornati a Milano si diedero da fare per trovare il miglior avvocato disponibile. Fu ancora una volta l'infaticabile Debora, come aveva già fatto prima con la baita e poi con la levatrice, a reperire la persona giusta, quell'avocatessa Elena Pirio Porosso che, sebbene alle prime armi, era dotata dello spirito giusto e della grinta necessaria. Siccome Hermes aveva speso tutto il suo denaro per finanziare il viaggio in Turchia e in Crimea era, al momento, privo di entrate finanziarie e furono Debora e Jenny ad accollarsi l'onere della spesa per la trasferta dell'avvocatessa in Ucraina. Forse non fu una coincidenza che a sborsare la pecunia per aiutare Marcello fossero due persone a lui sentimentalmente legate, seppure in maniera diversa. Su consiglio dell'avvocatessa, Debora e Jenny restarono in Italia poiché il processo a carico dell'imputato Binatti era ancora in fase istruttoria per cui era meglio non correre il rischio che l'attenzione della magistratura ucraina si concentrasse sulle donne in visita. Jenny voleva partire con l'avvocatessa a tutti i costi, ma alla fine si lasciò persuadere a restare.


Il lettore già conosce il resto della storia per quanto riguarda l'incontro tra l'avvocatessa e il suo cliente nel carcere di Kiev, ma vale la pena di sapere ciò che avvenne in seguito agli altri Restauratori della Giustizia e soprattutto a Debora, colei che con la sua abnegazione aveva reso possibile il concretizzarsi dei sogni di rivolta, suo personale e degli altri membri del gruppo, sogni che in loro erano rimasti a lungo in uno stadio larvale fino a quando fu proprio lei, con la sua ferrea volontà, a raccogliere attorno a sé quei giovani, ad organizzarli, ad infondere in essi la sua sovrumana forza d'animo, per non dire la sua salda fede nell'evoluzione spirituale dell'umanità e nella fondamentale bontà dell'uomo.

Dunque, la quarantenne Debora, dopo essersi liberata delle pigmee con cui aveva vissuto parecchie settimane, si accorse che esse avevano finito per diventare la sua unica ragione di vita mentre i suoi vecchi ideali di giustizia, che l'avevano sostenuta e animata negli ultimi anni, erano stati spazzati via dall'indifferenza e dall'ostilità con le quali l'opinione pubblica aveva reagito alla notizia dell'incursione nello stabulario. A Debora era parso di capire che alla gente non gliene importasse granché se uno sparuto gruppetto di originali stravaganti faceva fuggire qualche cavia umana dall'università, né la società avrebbe per questo rinunciato ai propri privilegi e ai vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle persone di colore. Quando Debora raggiunse la consapevolezza del loro fallimento come rivoluzionari fu presa da uno sconforto tale che cadde ben presto in depressione. La notizia che Marcello era stato arrestato diede il primo scossone al suo equilibrio psichico, ma il fatto di trovarsi senza più le negrette da accudire fu la botta finale che la spinse a buttarsi fra le braccia della morte. 

Al dramma interiore dovuto alla disillusione e alla sgradevole sensazione di essersi autoingannata, univa la coscienza della decadenza fisica. Davanti a sé vedeva solo, nel migliore dei casi, una lunga e solitaria vecchiaia costellata di amarezze. Vedeva sé, seduta davanti al telaio della vita, a tessere senza più passione il triste sudario dell'impotenza e del rimpianto. Si sentiva svuotata anche delle energie residue, incapace di opporsi alle ingiustizie del mondo, mentre fugaci pensieri di odio e rancore verso le umane genti balenavano talvolta nel suo cervello come metafisici fulmini in un cielo notturno ingombro di nere nubi. Ma era solo un attimo e la sua anima ripiombava nel denso vapore caliginoso della disperazione. Alla fine si era convinta che la razza padrona non avrebbe mai cessato di torturare e massacrare le razze inferiori e che la vivisezione, la caccia, la macellazione e le attività circensi non sarebbero mai cessate su questo pianeta. 

Se il prezzo per continuare a vivere era di starsene zitti e buoni, insensibili e passivi e quindi complici, lei non ci stava, lei preferiva andarsene da questo spietato mondo. Dato che le astronavi del popolo alieno a cui credeva, o sperava, di appartenere erano esplose in volo ed ella si sentiva quindi abbandonata in mezzo a genti barbare, dalle cui grinfie non sarebbe stata mai più liberata, decise di togliere il disturbo nell'unico modo che conosceva: suicidandosi. Modo apprezzato fin dall'antichità e praticato da quell'infinita schiera di disadattati, diversi e infelici di vario genere e per varie cause ma tutti aventi forse in comune il marchio della follia e l'incapacità congenita di accettare l'esistenza del male.
Fu così che Debora, il cui vero nome era Elisabetta Albaroli, andò ad ingrossare le fila del cospicuo esercito dei rinunciatari, di coloro che pronunciando la più grande ed imperdonabile bestemmia se ne escono dal laboratorio sbattendo la porta e dichiarando concluso, oltreché fallimentare, l'esperimento della loro vita. Nel suo caso fu un pezzo di corda il lasciapassare per i pascoli del cielo e fu una trave del soffitto della baita il trampolino di lancio per il nulla eterno. Dopo che la polizia ebbe trovato, su indicazione della padrona di casa, il cadavere di Elisabetta Albaroli e successivamente, in una perquisizione del di lei appartamento cittadino, un certo quantitativo di materiale compromettente, per Hermes, Jenny, Corinna e Consuelo, l'ex compagna di lotte, nonché loro valida coordinatrice, divenne un tabù e nessuno di essi volle più sentir parlare di lei. Fu cancellata in breve dalle loro esistenze ed essi si dileguarono prontamente dal loro recente passato come una famiglia di serpi quando si solleva il masso che ne copre la tana. 
                                                                                                                                                                
Jenny, Corinna ed Hermes ritornarono alle loro scialbe vite di una volta, mentre Consuelo e le studentesse lo avevano già fatto da tempo. La liberazione delle pigmee e dei cambogiani divenne per essi un'esperienza del passato, bella e terribie insieme, o forse addirittura un errore di gioventù da dimenticare al più presto. Rudy era morto e nessuno lo rimpiangeva, tranne forse sua madre. Debora riposava sotto terra e i fiori sulla sua tomba non erano ancora appassiti. Marcello era un sepolto vivo in un lontano carcere straniero. Di Kurt si erano perse completamente le tracce. Jenny a poco a poco digerì il fatto che il Binatti l'avesse lasciata per l'avvocatessa e si concentrò, traendone sollievo dal dolore, nel suo lavoro d'infermiera. Hermes e Corinna si sposarono (né poteva accadere diversamente) e si trasferirono in un'altra città.
Quando, scontata la pena, Marcello tornò a casa, dopo aver mantenuto costante carteggio con l'amante avvocatessa, in modo quasi fiabesco trovò Elena ad aspettarlo con la stessa disponbilità d'animo e di sentimenti di otto anni prima e con lei, in modo altrettanto fiabesco, convolò a giuste nozze. Ciò avveniva nella primavera del 2092 e il loro matrimonio resistette agli urti della banalità quotidiana per circa quattro anni, dopodiché la parabola sentimentale che li aveva visti percorrere un tratto di strada insieme declinò inesorabilmente, com'è prescritto dalle leggi della matematica e da quelle, non meno infallibili, dell'incostanza umana. Il collante che li univa venne lentamente a mancare, corroso dall'acida prosaicità dei loro personali egoismi. Per fortuna, non ci furono bambini a far le spese della separazione tra Elena e Marcello. Lei fece carriera diventando dopo qualche anno ottimo giudice di tribunale (poteva Marcello non divorziare?); lui si chiuse in un'esistenza strettamente e confortevolmente privata e si dedicò a mettere nero su bianco il romanzo della sua vita. Vita in cui avrebbe volentieri voluto vedere il nero oppresso sovrastare il bianco oppressore.
Anche dopo la sua scarcerazione, per qualche tempo, ebbe bisogno di un avvocato poiché sua moglie non se la sentiva più di difenderlo, come aveva fatto a Kiev, essendo emotivamente coinvolta, perciò Elena gli presentò un suo collega. Costui lo difese nel processo  a cui la magistratura italiana lo sottopose, peraltro senza avere alcun riscontro oggettivo, in merito alla liberazione delle pigmee. Marcello, unico imputato, fu alla fine assolto per insufficienza di prove ma dovette pagare, oltre all'avvocato, anche le spese processuali. Il tutto gli provocò, a lui fresco di scarcerazione, un bel po' di seccature aggiuntive con contorno di indigesto stress. In quel periodo fece un unico tentativo per contattare Hermes telefonando al suo nuovo recapito, ma questi fece finta di non conoscerlo, gli diede del lei e troncò la conversazione. Dal che Marcello dedusse che il passato era morto e sepolto e su di esso gravava inesorabilmente una pesante pietra tombale. Ed infatti è preferibile lasciare tali pietre al loro posto se non si vuole essere ammorbati dagli effluvi della decomposizione, poiché non c'è niente di più mefitico delle amicizie putrefatte.
Altrettanto frettolosamente Consuelo gli comunicò che Debora era deceduta e in quale cimitero era seppellita, così da quel giorno Marcello ritenne suo preciso dovere andare regolarmente a deporre fiori sulle tombe di Elisabetta Albaroli e di Riccardo Davidio, in arte Debora e Rudy, entrambi martiri della resistenza al Male, eroi della restaurazione della giustizia, se mai di essa in futuro qualcuno si farà ancora carico di portarne la fiaccola e lo stendardo.

Fu forse anche per la sua inclinazione alla mestizia che Marcello fu lasciato da Elena Pirio Porosso dopo quattro anni di vita matrimoniale. Non che dopo il divorzio sia diventato un incallito misantropo ma non era più neanche socievole come prima. Ebbe ancora qualche esperienza sentimentale, ognuna di esse regolarmente naufragata, e ci fu perfino chi lo andava a trovare abbastanza di frequente in quella sua casa col caminetto e una fornitissima libreria, quasi un tempio del sapere, ma lui  non andava in cerca di nessuno, non aveva bisogno di nessuno perché era bastante a se stesso. Gli altri, con la loro arroganza arianocentrica, con le loro macellerie di carne umana, con i loro ospedali, con le loro caserme, con i tribunali e i manicomi, le chiese e le prigioni gli avevano fatto troppo male e la vita gli aveva insegnato a non immischiarsi, a lasciare che il mondo vada come deve andare, che tutti si cuociano nel loro brodo e che crepino pure nello stesso calderone, buoni e cattivi con i loro stridor di denti, schiavi e tiranni a piangere insieme fino alla dissoluzione apocalittica del giorno dell'ira divina, sempre che il Padreterno si degni d'intervenire e si dia una mossa, giacché uno solo può rimuovere il tiranno dal trono sanguinoso dell'oppressione: colui che ce lo ha  messo.
                                                                                                                                                  
Ma questa glaciale sensazione di aver tradito i propri ideali lo perseguitò per tutta la vita e si annidò nella sua anima come un malefico parassita, saturo di nauseanti sensi di colpa. E pur tuttavia continuò a vivere trovando il suo sollievo dalla bruttezza dell'epoca in cui era condannato a esistere nella lettura dei libri, come già aveva imparato a fare quando era in carcere. Anche Marcello, come Debora, aveva finito per considerarsi un alieno confinato per sbaglio su un pianeta primitivo. La fuori c'era la giungla, il dominio del Male ed egli non voleva più rinunciare alla sicurezza del suo volontario eremitaggio domestico.
Egli non rinnegava i suoi trascorsi da sovversivo, li considerava solo un tentativo finito male, almeno per lui e per i due compagni che non c'erano più, o meglio un esperimento sociologico i cui risultati e le cui conseguenze era impossibile individuare con chiarezza essendo quelle due liberazioni di schiavi, peraltro parzialmente andate a buon fine, come semi gettati su un terreno aspro ma dalla indecifrabile composizione chimica e pertanto suscettibile di inaspettate fioriture. Solo gli eventi futuri avrebbero dimostrato se il sacrificio di Rudy e di Debora sia servito a qualcosa e se gli otto anni di prigione scontati da Marcello abbiano contribuito a far riflettere alcuni settori dell'umanità antropofaga. Per Marcello ciò rimase un grosso punto interrogativo, in tutti gli anni che gli avanzarono da vivere. Egli consumò il resto dei suoi giorni chiuso nel suo dolore e, per quanto possibile, chiuso nella sua casa col caminetto, in compagnia dei suoi libri e con qualche bottiglia di liquore, senza mai dimenticare  di portare i fiori sulle tombe di Rudy e di Debora, l'unica donna che forse gli aveva voluto bene veramente o che era un po' meno mostruosa delle altre.
Il 2084, anno glorioso in cui l'eroica ingenuità del Bene aveva portato il suo timido attacco alla volgarità monolitica del Male, si perdeva nei nebbiosi meandri della cedevole memoria e di esso ne risuonava ormai solo l'eco della nostalgia.
Marcello Binatti, membro sconfitto dei restauratori della Giustizia, ex detenuto del carcere di Kiev, era ridiventato un uomo normale, innocuo e insignificante, seppure afflitto da lievi tendenze antisociali.

4 commenti:

  1. 2084 é per me il più "strano" dei tuoi libri che ho avuto modo di leggere... e che come gli altri in alcuni punti mi ha fatto veramente ridere (anche se forse non ne avevi l'intenzione).
    Il capitolo "incriminato" colpevole di suscitare il mio divertimento è il secondo capitolo che pur partendo in modo serio: "Dal momento che l'operazione culturale... di declassamento di persone al rango di bestie era riuscita benissimo... parve del tutto normale destinare a negri e affini quei compiti che nella vecchia cultura si attribuivano agli animali."

    qui non ho proprio resistito: "Per esempio ai giapponesi piacevano molto le giacche in pelle di negro, masai, dalle sfumature ramate, mentre agli americani della Georgia e del Mississippi piacevano i giubbotti in pelle di somalo. Presso i tedeschi andavano per la maggiore borse, cinture e portafogli in pelle di turco...."

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    1. Lo trovi strano?

      Eppure, se togli la finzione creativa e metti gli animali al posto delle persone di colore, i fatti narrati sono realmente accaduti, con nomi di fantasia al posto di quelli reali.

      Tutti i protagonisti, che io sappia, sono ancora in vita. E te lo potrebbero confermare.

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  2. "Strano" per gli accostamenti.... i gusti dei giapponesi, dei tedeschi ecc.

    oppure in questo passaggio (i tailandesi) "per la produzione della cosiddetta carne bianca. Si scoprì che strutturalmente i bambini tailandesi erano i più adatti.."

    o più avanti (i watussi) "Nel campo della ricerca medica applicata si scoprì che il sangue dei negri Watussi era particolarmente indicato per le persone anemiche, cosicché sorsero macellerie specializzate nella vendita delle bistecche di Watusso."

    "Strano" quindi per gli accostamenti fantasiosi (come sopra: masai, dalle sfumature ramate). Il messaggio arriva, però non ho potuto trattenermi dal ridere.

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    1. Il riso è nobile. Ma la pastasciutta è più buona.

      Gli accostamenti vorrebbero avere un intento educativo. Per far riflettere. Non so se ci sono riuscito.

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