Fonte: Coscienze in rete
L'ultimo consiglio dei ministri ha approvato ddl di ratifica del
trattato di libero scambio con il Canada, un provvedimento dalle
nefaste ripercussioni di cui nessuno dei grandi e piccoli media
nazionali ha dato notizia. E’ arrivato il CETA, ma non ditelo in
giro. Il governo ha approvato il disegno di legge per la sua ratifica
ed attuazione, ossia per l’accordo economico e commerciale tra
l’Unione europea e il Canada. Ma piano – per favore! – non
strillatelo.Eh
già, perché il temuto trattato, firmato lo scorso 30 ottobre a
Bruxelles e ratificato
dal parlamento europeo questo febbraio sta per arrivare al
parlamento italiano. Chi lo dice? Il consiglio dei ministri che si è
riunito mercoledì sera in fretta e furia e senza neanche un minuto
di preavviso; quel cdm di cui i rappresentanti solitamente si
affrettano a propagandare i risultati e per il quale invece non è
stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa. E come
mai, c’è da chiedersi, neanche il più ridicolo e scarso dei
media (provare per credere? Fatevi un giro su google) ha dato
questa notizia di epocale importanza? Perché è meglio farlo passare
in sordina, o perché forse questo “gran valore” economico non lo
ha? Per entrambi i motivi.
Scopo dell’Accordo – si
legge nel comunicato del governo – “è
stabilire relazioni economiche avanzate e privilegiate, fondate su
valori e interessi comuni, con un partner strategico”. Si
creano nuove opportunità per il commercio e gli investimenti tra le
due sponde dell’Atlantico – si legge ancora – “grazie
a un migliore accesso al mercato per le merci e i servizi e a norme
rafforzate in materia di scambi commerciali per gli operatori
economici”. Accidenti, che grande occasione, addirittura la
sola Italia potrebbe beneficiare in termini di maggiori esportazioni
verso il Canada “per circa 7,3 miliardi di dollari
canadesi”. Ripetiamolo insieme: sette miliardi.
Per avere un’idea, l’IMU che noi italiani abbiamo pagato sui
nostri immobili, nel solo 2016, è costata 10 miliardi di euro;
circa la stessa cifra è stata spesa dal governo Renzi per pagare i
famigerati “80 euro”. Il governo Gentiloni ha recentemente
“salvato” il sistema bancario creando con estrema facilità un
fondo da 20 miliardi di euro. Di esempi se ne potrebbero fare a
bizzeffe, ma il concetto è chiaro: questo accordo economicamente non
vale la carta su cui è stampato, e il problema maggiore è che a
fronte di un così ridicolo guadagno – nemmeno sicuro,
considerato che si tratta di stime – stiamo per svendere
completamente la nostra nazione, e non è un’esagerazione. Perché
ciò che più fa male è che i nostri governanti si affrettino a
specificare come l’accordo “garantirà comunque
espressamente il diritto dei governi di legiferare nel settore delle
politiche pubbliche, salvaguardando i servizi pubblici
(approvvigionamento idrico, sanità, servizi sociali, istruzione) e
dando la facoltà agli Stati membri di decidere quali servizi
desiderano mantenere universali e pubblici e se sovvenzionarli o
privatizzarli in futuro”. Peccato che la cosa, oltre a suonare
palesemente come una “escusatio non petita”, è
oltremodo falsa.
Spieghiamoci. E’ vero che “espressamente” il testo del Ceta
– nelle sue premesse – “riconosce” agli Stati membri il
diritto di prendere autonome decisioni in materie di interesse
pubblico come appunto la sanità e il resto, ma in maniera
altrettanto precisa descrive il funzionamento del “dispute
settlement”, ossia di un arbitrato internazionale cui una
“parte” (che può essere uno Stato ma anche un’azienda che
opera sul suo territorio) può fare ricorso in caso sia in disaccordo
con decisioni prese da altre parti. Tradotto, un’altra nazione o
peggio una semplice società, spesso multinazionale, può impugnare
una decisione di uno Stato anche quando adottata “nel
diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche”,
qualora questa vada a “discriminare” il business dell’azienda. Il
funzionamento di questo “tribunale privato” fa diretto
richiamo al DSS, identico strumento previsto dall’Organizzazione
Mondiale del commercio (o “WTO”, accordo simile al Ceta ma su
scala globale). Quest’ultimo prevede la selezione di un “panel”
di giudici, composto da esperti provenienti solitamente dal mondo
della consulenza privata (esatto, delle multinazionali) o da atenei
altrettanto privati. Il panel redige un rapporto contenente la
propria opinione circa l’esistenza o meno di un’infrazione alle
regole del WTO.
Esso non ha la forza legale di una vera e propria sentenza eppure
la procedura di appello ha una durata massima prevista in novanta
giorni, e la sentenza, dopo l’approvazione, è definitiva.
Sintetizzando: l’Organizzazione Mondiale del Commercio (cui
l’Europa e l’Italia hanno aderito da più di vent’anni, nel
1995) ha fini prettamente economici e finanziari; gli Stati, si dice,
sono sovrani, eppure i principi che regolano gli scambi
internazionali sono al di sopra delle leggi nazionali, ed
internazionali; in caso di controversie, le parti (non gli Stati in
realtà, quanto le società multinazionali “discriminate”)
possono rivolgersi al WTO e chiedere se sia giusto o meno non
applicare il suo regolamento; il WTO, privato e - sicuramente
-imparzialissimo, emette la sentenza, che, per carità, non ha forza
legale vera e propria (non essendo un vero tribunale), però è ad
ogni modo inappellabile e definitiva. Democraticamente. E
quel che è previsto per il Wto vale per il CETA. Il tribunale
del WTO è stato mai adito per questioni sugli scambi internazionali?
Oh sì! Solo gli Stati Uniti sono stati coinvolti in più di 95 casi
contro società private, e di questi processi gli USA, in qualità di
nazione, ne ha persi 38 e vinti appena 9. Gli altri o sono stati
risolti tramite negoziazioni preliminari oppure sono ancora in
dibattimento. In circa 20 casi il Panel addirittura non è mai stato
formato, e la maggior parte dei processi che hanno perso riguarda
livelli di standard ambientale, misure di sicurezza, tasse e
agricoltura.
Questo panegirico forse può risultare oscuro pertanto è utile
fare una semplificazione: lo Stato italiano, al contrario di quanto
dice il governo Gentiloni, non può decidere autonomamente
alcunché, prima di tutto perché fa parte dell’Unione europea e ha
siglato accordi comunitari come il Patto di stabilità e il fiscal
compact, oltre a far parte di un’unione monetaria, quindi di
partenza non ha alcun potere decisionale in termini di politiche
monetarie, fiscali, economiche e sociali. Secondo poi, pur godesse di
una simile sovranità, comunque rischierebbe di trovarsi contro cause
miliardarie– private –e di perderle, con tanti saluti al “potere
politico”. Quel che allora il misero comunicato stampa del
consiglio dei ministri dice in parte è vero, ossia che il governo
può “decidere quali servizi mantenere universali e
pubblici e se sovvenzionarli o privatizzarli in futuro”. Scopo
dell’accordo è infatti di liberalizzare completamente
qualsivoglia tipo di merce o servizio, inclusi quelli che
teoricamente uno Stato soltanto dovrebbe garantire, e che invece già
stanno finendo in mano ai privati (cliniche sanitarie, scuole, ecc.
ecc.), in un mondo che sempre più sarà alla portata di poche
persone e tasche. Ed ecco che la nostra carta Costituzionale si
trasforma in carta igienica.
Quanto alle “potenzialità” di esportazione la nostra bella
Penisola, da sempre caratterizzata da una grande vocazione
all’export, già da tempo ha incrementato la vendita dei propri
beni all’estero. Siamo più competitivi? Facciamo cose migliori? Né
più né meno come prima, semplicemente gli italiani non hanno
più una lira (i consumi domestici sono drasticamente calati,
grazie a politiche iniziate da Mario Monti che in una celebre
intervista ammise di “distruggere la domanda interna”) e quindi
le imprese (quelle che non hanno chiuso) si sono arrangiante puntando
ancor più sui mercati forestieri; solo pochi giorni fa l’Istat ha
registrato nei suoi dati la “morte” della classe media
italiana. Nel frattempo, visto che le merci di qualità come
quelle nostrane non ce le possiamo permettere, nei nostri negozi
arrivano tonnellate
di merce a basso costo ma di pessima qualità che viene
assoggettata a controlli scarsi o addirittura nulli, poiché già
siamo in un’unione di libero scambio, l’Unione europea, che
stiamo per estendere al Canada. Inutile dire che simili politiche
danneggiano direttamente le nostre imprese, dunque il lavoro e in
generale il benessere del nostro popolo. Tutto questo per – forse –
sette miseri miliardi. Neanche i 30 denari di Giuda.
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