mercoledì 20 novembre 2013

L’inferno dove sono diretto



La storia che sto per raccontare, alcuni di voi stenteranno a crederla vera. Eppure è successa, mi è successa, e per qualche giorno mi ha fatto piombare nella depressione, dandomi un senso di spaesamento e facendomi percepire la fragilità della condizione di essere un alieno capitato per sbaglio su un pianeta primitivo.
Rientravo in città, a Tulear, dopo un viaggio di quindici ore su strade piene di buche e sassi, rannicchiato nella cabina di guida alle spalle dell'autista. E' mezzanotte quando il camion-brousse spegne finalmente il motore, tenuto ininterrottamente acceso fin dalla partenza. I due addetti sono già sul tetto del camion, per consegnare i bagagli. In che condizioni saranno le due capre nascoste alla vista da file di taniche e di casse di birra? Bambini piangono, adulti si aggirano nel buio, galline strapazzate starnazzano di dolore. Chi ha la pila proietta inutili fasci di luce sul tetto e descrive ad alta voce forma e colore del proprio bagaglio. Alla fine, Tina, la mia compagna malgascia, rientra in possesso delle due valige. Io, è già da un po' che mi ero seduto, dietro, nell'unico taxi disponibile. A fianco del taxista si siede un altro cliente. Non c'è molta strada da fare, per arrivare al quartiere di Sanfily, ma di notte la città diventa pericolosa. Imbocchiamo la stradina sabbiosa, anch'essa piena di buche e sassi, che conduce alla casa di madame Fleurette, dove siamo in affitto. 

Tina le aveva telefonato e la donna era rimasta sveglia ad aspettarci. Fin dall'inizio della stradina ci sono cani che bighellonano di qua e di là, muso a terra, cercando cibo. Al nostro arrivo si tirano in parte. Ma più avanti ce n'è uno, giovane, magro, acciambellato in mezzo alla strada: sta dormendo. Sente il rumore della macchina, vede i fari, si alza. Il taxista, che andava a 10 Km all'ora, invece di fermarsi o rallentare per dargli il tempo di spostarsi, tira diritto e lo colpisce. La scena si svolge così in fretta che non ho tempo di gridare "Frena, frena, frena!", ma dalla mia bocca esce un "Ferma, ferma, ferma!". Io non ho tempo di tradurre in francese e lui, il taxista, l'italiano non lo capisce. Apro la portiera della Renault 4 ancora in movimento, metto un piede a terra e, per la forza d'inerzia, mi ritrovo a gambe all'aria. Il cagnetto è già scappato lontano, guaendo. Lo rincorro per sincerarmi, con la luce della piletta, delle sue condizioni, ma mi sfugge e va a nascondersi dietro una casa. Ritorno verso il taxi, che non si era mosso. Tina e il passeggero non erano scesi. Affronto come una furia il taxista, seduto al posto di guida, probabilmente perplesso, e gli grido, attraverso il finestrino abbassato: "Perché? Perché?", stavolta nella sua lingua. Vedo la paura nei suoi occhi. E infatti, rientrati in casa Tina mi dice che avevo alzato la mano nell'atto di colpirlo, ma questo particolare non me lo ricordo. Forse l'ho rimosso. Non lo escludo, comunque. Mi dice anche che madame Fleurette si è offesa perché non sono andato a salutarla, ma io non ero nelle condizioni psicologiche per rendere omaggio a un malgascio, benché padrone di casa. 

Risalgo e ripartiamo ma, fatta una decina di metri, in mezzo alla strada c'è un altro cane disteso su un fianco. Questa volta il taxista sa da solo che deve fermarsi. Scendo: il cane è in una pozza di sangue, vivo. Lo sposto a lato della strada, come faccio in Italia con i cani morti, investiti. La mia rabbia impotente, ora, trova un altro destinatario, l'intero popolo dei malgasci, crudeli e selvaggi, soprattutto quelli che non frenano quando vedono un cane sulla carreggiata. Risalgo, lanciando maledizioni a tutti gli abitanti del Madagascar, e ripartiamo, ma ormai siamo già davanti al cancello della nostra casa.
Lascio a Tina il compito di portare dentro i bagagli e torno dal cane investito. Devo spostarlo da lì perché, sulla stradina dove di giorno passano molti bambini, qualcuno di loro potrebbe infierire su di lui, paralizzato e inerme. Tenendo la piletta fra i denti, porto il cane nel cortile della Chiesa Avventista e lo depongo sotto un albero.
Dalle condizioni in cui versa, giudico che non arriverà vivo al sorgere del sole. E invece, alle sei del mattino, con le prime luci, torno sul posto ed è ancora lì. Vivo! A quel punto faccio quello che qualsiasi occidentale avrebbe fatto, tralasciando quella minoranza di selvaggi di casa nostra che forse gli avrebbero fracassato il cranio con una pietra. Alla luce del giorno, mi accorgo anche che quello non era un buon posto per far morire in pace un cane, perché, anche se c'era un po' d'erba secca e qualche albero, c'erano pure abitazioni nelle immediate vicinanze.
                                                                                                                                                  
Lo sistemo sul retro della casa, dove, nella foto qui a destra, anteriore al dramma, è parcheggiato il motorino, sapendo per istinto (ma anche conoscendo l'avversione che i malgasci hanno per i cani) che se l'avessi portato dentro casa, avrei suscitato le ire di madame Fleurette. Metto sotto la testa della cagnetta un cartone, per evitarle che la bocca stia a contatto del terreno. Avendo la mandibola fracassata, è costretta a tenerla aperta. Le inumidisco il tartufo e la lingua con una spugna bagnata: sembra gradire. Di più non so che fare. Nonostante i miei tentativi per evitare la disidratazione, o almeno per non farle soffrire la sete nella sua agonia, la cagnetta perde liquidi, dalla bocca e da un orecchio. In due giorni espelle i cataboliti, liquidi e solidi, due volte. La sposto sull'altro fianco, di tanto in tanto, per evitarle i dolori da decubito. La tengo all'ombra. Chiedo a Tina di aiutarmi a trovare un veterinario, sospettando che, essendo sabato, non lo avrei trovato. Alla parola veterinario, lei equivoca, e pensa che io voglia cercare di guarire quell'essere immondo che mi sono permesso di introdurre in cortile, mentre io del veterinario ho bisogno solo per dare pace alla cagnetta paralizzata. 
Mi boicotta, senza ch'io me ne renda conto. Mi dice che prima dobbiamo portare lo scooter dal meccanico, e che poi avrebbe cercato con me un veterinario. Accondiscendo, finché non perdo la pazienza e cioè fin verso le 10.30, quando la lascio dal meccanico e vado a cercarmi il veterinario da solo. L'ufficio, che mi era stato indicato, come volevasi dimostrare, è chiuso. Nel pomeriggio Tina mi dice che il meccanico, visto allontanarsi il VAZAHA (lo straniero), aveva rimesso i pezzi al loro posto, indispettito, e l'aveva mandata via con il motorino non funzionante. Così fanno i malgasci: tra di loro non si fidano. L'uomo aveva paura di non essere pagato.

Nel frattempo, la padrona di casa aveva notato l'intruso a quattro zampe, immobile in cortile. Convoca Tina e mi fa sapere che, portando un cane ferito sul suo terreno, ho violato uno dei loro tabù, giacché per l'etnia TANALANA il cane è FADY di per se stesso, ma il suo sangue è quanto di peggio vi possa essere, dato che rende impura non solo la terra su cui cade, ma anche tutto ciò che le sta attorno. La donna inoltre convoca i suoi parenti, che rimproverano Tina, una TANALANA, di non aver spiegato al VAZAHA suo compagno questa loro irrinunciabile credenza e alla fine mi fanno  sapere, tramite Tina portavoce, che per purificare casa e corte (dagli spiriti maligni?) devo comprare uno zebù da sacrificare lì, nel posto dove la cagnetta ha perso qualche goccia di sangue. Tuttavia, si premurano di farmi sapere, bontà loro, che si accontenteranno di una pecora. Tutto questo, mentre la cagnetta era ancora viva, nel corso dell'interminabile domenica, aspettando il lunedì e la riapertura dell'ufficio veterinario. Nel gruppo c'era anche un poliziotto, ex genero di Fleurette, che sbraitava dicendo di voler mettere in prigione quel VAZAHA che ha mancato di rispetto alle loro tradizioni, salvo poi far capire a Tina, lontano da Fleurette, che stava bluffando e chiedendole di avere pazienza con quell'anziana donna, sua ex suocera. E c'è stata anche la telefonata intercontinentale di una sua figlia sposata con un francese, in cui spiegava che a Parigi esistono cliniche per i cani e centri di toelettatura e negozi di cibo per animali e cagnetti con il cappottino che vanno in giro per le strade insieme ai loro padroni.....
                                                                                                                                                                 
Inutilmente. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Dico a Tina, che suo malgrado era venuta a trovarsi tra l'incudine e il martello, che mai e poi mai accetterò di comprare una pecora da sgozzare perché mi sono comportato da buon samaritano nei confronti di un cane. Mai e poi mai darò i miei soldi per un'infamia simile, che loro, nella loro pochezza culturale, nella loro mancata evoluzione spirituale, si ostinano a chiamare tradizione.

In questo - in questa pervicacia - ci vedo delle analogie con la rabbiosa difesa di sagre, palii, consuetudini alimentari e spettacoli con animali, fatta dai selvaggi di casa nostra, specie quelli di estrazione rurale. Ma qui è un tantino diverso; qui ci troviamo di fronte ai sacrifici animali, come venivano fatti dagli antichi romani, dai greci, dai celti, e pure dai sacerdoti Leviti del Vecchio Testamento. Sacrifici animali aboliti da Gesù Cristo, immolatosi una volta per tutte, come Agnello di Dio. Non per niente tiro in ballo il Cristianesimo, perché si da' il caso che madame Fleurette sia una suora protestante, una PIANDRI, in malgascio, di quelle che non bevono alcolici, vanno sempre vestite di bianco, tengono i malati di mente incatenati ai letti e li colpiscono con la Bibbia in testa, nel tentativo di scacciare Belzebù dai loro corpi. Non sto esagerando: fanno esattamente questo! Se lo facessero in Italia, finirebbero in prigione per sequestro di persona, com'è successo a una certa Diletta Pagliuca (e pure Vincenzo Muccioli ha avuto i suoi problemi giudiziari per aver incatenato al letto un tossicodipendente), ma se lo fanno qui è tutto normale, perché dare la Bibbia in testa agli schizofrenici fa parte.....delle loro tradizioni.

Mi chiedo - per inciso - dove i missionari cristiani abbiano sbagliato. C'è chi dice che ricevano uno stipendio, dalle varie chiese protestanti, e che si facciano suore per mantenere la famiglia. Io, agnostico, ex testimone di Geova, provo disgusto, poiché questa "religiosa", così come anche tutti i suoi compatrioti, non ha capito qual è lo spirito del Cristianesimo, che da' molta importanza alla compassione e alla pietà, anche nei confronti degli animali (San Francesco docet).

Nessuno di loro mi ha affrontato di persona, neppure il poliziotto. Tutto mi veniva riferito da Tina, sempre più nervosa e irritata per la pressione a cui era sottoposta. La cagnetta soffriva in silenzio e non voleva saperne di morire. Io la accarezzavo e le inumidivo la bocca. Una volta ho avuto l'impressione che mi scodinzolasse. Domenica mattina uscii a cercare suor Clemenza, qui con me a sinistra, una suora infermiera cattolica, a cui l'anno scorso avevo tenuto un corso di italiano e che, avendo accesso all'ospedale, forse poteva farle l'iniezione letale, per abbreviarle la sofferenza, ma non c'era. Telefonai a un mio compaesano, conosciuto in Madagascar ed ivi residente, che di professione in Friuli faceva il macellaio e con cui, incredibile a dirsi, sono entrato in amicizia, per sapere se poteva aiutarmi, ma anche lui non era reperibile. Per fortuna, vorrei aggiungere. E' brutto a dirsi e triste a doverlo riconoscere, ma i macellai hanno l'abilità manuale per uccidere in fretta. Se lunedì non avessi trovato un veterinario, come avrei fatto a sopprimere quell'innocente creatura?

Madame Fleurette aveva già ingaggiato un ragazzo per scavare la buca, ma venendo a sapere tramite Tina che la buca l'avrei scavata io, perché si trattava di una faccenda personale tra me e la cagnetta, mi fece avere il badile e il sacco dove mettere il cadavere. Tutto questo, mentre la bestiola era ancora viva, tanta era la fretta di porre rimedio a quella mia "mancanza di rispetto per le loro tradizioni". In tre giorni, fino a quando non ho fatto le valige e me ne sono andato, la donna non si è mai fatta vedere, forse perché si vergognava.
                                                                                                                                                                  
Arriva il giorno fatale, lunedì. Il veterinario prende la sua valigetta. Tina mi avverte che fa VAZAHA PROFIT, chiedendomi 56.000 ariary (20 euro) anziché il prezzo giusto di 30.000, ma non ci faccio caso. Salgono sul taxi. Io li precedo in motorino. La prima iniezione, di anestetico, è nella coscia, con fuoriuscita di qualche goccia del famoso sangue immondo (il veterinario è di etnia MERINA); la seconda, di stricnina, direttamente nel cuore. La cagnetta solleva la testa, ma non guaisce. Le mosse del dottore sono rapide e professionali. Gli offro una sedia. Arriva il mio compaesano, che non sapeva perché lo aveva cercato. Aspettiamo tutti, anche Tina a debita distanza, che il ritmo della respirazione s'interrompa. La povera creatura ha qualche tremito, ma il respiro non cessa. In pochi minuti, aveva detto il veterinario, il veleno farà il suo effetto. Dopo un quarto d'ora l'uomo si fa riportare dallo stesso taxista in ufficio, a prendere un'altra dose. La cagnetta sta lottando fino alla fine, perfino contro la stricnina nel cuore. E' a quel punto che mi viene
l'atroce sospetto che il veterinario, pagato in anticipo, non si faccia più vedere e lasci il lavoro a metà. E' a quel punto che mi si prospetta come reale l'orribile ipotesi di mettere la cagnetta nelle mani del mio compaesano macellaio, che, anche se non posso definire amico, si è però sempre comportato amichevolmente con me, e io con lui, e che, benché mio "nemico", non posso odiare per partito preso, cioè per "ideologia".

Il dottore torna, in bicicletta: deontologia professionale! Con la seconda dose di stricnina nel cuore, la cagnetta, finalmente, si arrende. Il mio conterraneo regge il sacco, mentre la infilo dentro in posizione fetale. Congedato il compaesano, m'incammino, sacco e badile in spalla, verso le dune fossili, dove la sabbia, a differenza della terra battuta, mi permetterà di non fare troppa fatica. E' curioso vedere un VAZAHA a piedi (di solito sono motorizzati), ma lo è ancora di più vederne uno con un attrezzo agricolo sulle spalle: non si passa inosservati. Mi arrampico sulle dune, cercando un posto appartato.
Tina voleva che scavassi la buca vicino ai fichi d'India, dove al mattino i malgasci vanno a defecare, perché quello per lei era il posto giusto per un cane. Confesso che quando me lo disse mi vennero certi cattivi pensieri, a proposito di quello che sarebbe stato il posto giusto in cui seppellire lei. 

Alcuni bambini guardiani di capre mi gridano qualcosa, ma non ci faccio caso perché, quando cammino per la strada, i bambini hanno sempre qualcosa da gridarmi. Ma questa volta è diverso. Il tono era più concitato e infatti, dopo le prime badilate, si presenta un adulto, attorniato da una decina di ragazzini, che mi fa un lungo discorso di cui comprendo solo due parole: FADY (tabù) e LOLO (morto). Allora capisco. Senza alcun segnale di riconoscimento, su quella collina sabbiosa riposano cadaveri umani, in attesa di diventare ossa ed essere riesumati per la sepoltura vera e propria. Richiudo la buca appena iniziata e chiedo gentilmente che mi mostri un posto non tabù. Me lo mostra. Se non sono, poi, andati a rimuoverla, la cagnetta, dopo due giorni e tre notti di agonia, ha trovato pace a mezzo metro di profondità, ai piedi delle dune fossili di Tulear, lontano dai fichi d'India, dalle ossa degli uomini e dai loro escrementi. 
                                                                                                                                                  
Ritornando verso casa col badile in spalla (badile che, una settimana dopo, mi verrà richiesto di comprare nuovo, perché "contaminato"), l'uomo mi raggiunge di corsa per chiedermi del denaro, cosa che i malgasci imparano a fare fin da piccoli, ai VAZAHA, non appena cominciano a parlare, neanche la buca l'avesse scavata lui. Assumo l'aria più afflitta che mi riesce, estraggo le tasche vuote dei pantaloni, in un gesto universale che indica mancanza di denaro, e mi dichiaro dispiaciuto di non potergli dare nulla.

E' lunedì pomeriggio. Ancora spirano venti di guerra. C'è qualcosa di strano nell'aria. Qualcosa d'insolito. Ma sì, è un belato. C'è una pecora legata in un angolo, in cortile. All'inizio non ci faccio caso, perché i versi degli animali domestici sono suoni comuni in tutto il Madagascar, che è un'immensa stalla a cielo aperto. Poi un pensiero mi trapassa la mente: "Quei bastardi! Vogliono andare fino in fondo....".
Speravo fosse tutto finito, perché "mors omnia solvit" e invece questa storia deve finire con un "inferno lastricato di buone intenzioni". Se prima non dormivo per i rantoli del cane, ora sono i belati della pecora a tenermi sveglio. Chiedo a Tina per quando è prevista l'esecuzione. Domani mattina. Le mie valige sono pronte in un attimo.
Lei, in quanto TANALANA, assisterà.

Ero ancora sotto la doccia, alle 7.15 di martedì, che, provenienti dalla terrazza, sento le voci dei convocati, tutti TANALANA: sua madre, una sua amica. Poi arriverà il fratello professore di Fleurette, che fungerà da boia. A tutti verrà data una parte del bottino, comprese le interiora e la testa. Tina mi chiama un taxi.
Quando passo vicino a quella gente sorridente, venuta ad assistere al sacrificio con la stessa gioiosa aspettativa di chi va a vedere una corrida, mi scappa un "Madagascar de merde", biascicato fra i denti, bello, chiaro e forte, in modo che tutti mi sentano. Tranne Fleurette, che ancora si vergogna e continua a non farsi vedere. Io, animalista, mosso a pietà per un cane investito, cacciato senza colpa dal quartiere di SANFILY, come gli anarchici da Lugano, devo andarmene come un ladro, da una casa dove pagavo regolarmente l'affitto. Nel pomeriggio, quando Tina mi raggiunge in albergo, mi dice che il sangue della pecora, oltre che in cortile, dove avevo messo la cagnetta, il professore-stregone lo ha sparso anche in casa, sul pavimento e sulle pareti. Agli ospiti, convenuti per l'allegra cerimonia, Tina ha offerto tè e biscotti. Il mio tè e i miei biscotti. Oltre al danno, la beffa. Belzebù, da qualche parte in Madagascar, sghignazza beffardo.

2 commenti:

  1. Grazie per la storiella, tristissima. Comunque ricordiamoci che da noi questo succede ogni secondo di ogni giorno quando la gente mangia o utilizza prodotti provenienti da animali. La differenza è che questo delirio infernale è nascosto dagli occhi di tutti.
    Vittorio

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  2. Solidarietà per tutto quello che ha vissuto nell'accompagnare la cagnetta.
    La prego caldamente di non confondere il cristianesimo con il cattolicesimo, Roberto, quante volte ancora devo ripeterglielo?

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