lunedì 11 gennaio 2016

I banditi colpiscono alcuni ma rendono più poveri tutti

 
 
Se si va a Tulear, non si può non fare una capatina a Mangily, 27 Km a nord sulla strada sterrata per Morondava, come abbiamo fatto io e Tina venerdì 8 gennaio. Molti turisti si ostinano a chiamarla Ifaty – e anche nelle guide è chiamata così – ma si tratta di due villaggi di pescatori diversi anche se distanti un paio di Km l'uno dall'altro, che hanno avuto due diversi destini. Ifaty è rimasto un villaggio di pescatori, mentre a Mangily si sono concentrati negli anni ristoranti e alberghi. Ci sono mangrovie, in alcuni tratti, e il mare non è bellissimo, presenta rocce sul fondo e l'acqua è quasi sempre torbida. Tuttavia, il grande tamarindo presso cui ai turisti in vena di avventure piace fare colazione con caffè malgascio e boko boko – e a volte anche mangiare pesce fritto e cicale di mare – continua ad attirare i viaggiatori, che hanno a disposizione sia alberghi fronte mare, sia quelli più nell'entroterra. Tanto per fare un esempio, l'ONG spagnola “Bel Avvenir” ha costruito un albergo ristorante chiamandolo “Solidaire”, a 50 metri dalla strada principale, verso la foresta. Un anno fa non c'era. C'era già, invece, Leontine, presso cui siamo andati a chiedere informazioni: 30.000 ariary a notte per un bungalow da cui non si vede il mare e 40.000 per uno in faccia al medesimo. 

 
Per arrivare a Mangily abbiamo preso uno scassato Mazda giallo e non mi stupirei se avesse già fatto un milione di Km, di tanto mal messo che era. Siccome viaggio sempre davanti, a fianco dell'autista, c'è stato un momento in cui ho immaginato che il fondo si staccasse e io mi ritrovassi col culo per terra, ad arare con il sedile il terreno ondulato di sabbia compatta. Non è successo, se no non sarei qui a raccontarlo. Siamo scesi in centro villaggio e non sotto il grande tamarindo, come facevano una volta tutti i pick-up brousse in servizio tra Mangily e Tulear.

Da Leontine, che poi alla fine, dicendole che cercavamo un posto dove fermarci tre settimane era scesa a 25 ariary, venerdì era tutto occupato, così abbiamo preso un bungalow sulla spiaggia Chez Alex, per 35.000 ariary. Ce n'era uno vicino per 30.000 ma abbiamo scoperto subito il motivo della differenza di prezzo: il wc non funzionava. Non finirò mai di stupirmi della negligenza dei malgasci che non si curano minimamente della manutenzione, recando danno a se stessi prima ancora che ai turisti. Qualsiasi idraulico – e presso gli alberghi ce n'è sempre uno – saprebbe rendere funzionante un gabinetto, ma molti malgasci preferiscono lasciare le cose rotte così come stanno, siano esse serrature, finestre, lavandini o docce. Fa parte della loro mentalità ed è un fenomeno generalizzato. La presenza di wi-fi solo in due posti, l'hotel “Solidaire” e Madame Alban, unitamente ai prezzi elevati di cibi e bevande e al mare torbido pieno di alghe per la mareggiata del giorno prima, ci hanno fatto decidere di rientrare in città un giorno prima del previsto. Sabato 9 eravamo già al Vahombe, infatti. 

Mentre percorrevamo la strada di sabbia che dal grande tamarindo va verso il punto da cui la mattina partono i pick-up brousse per Tulear, ci imbattiamo in una bambina che teneva “al guinzaglio”, costituito da un sottile filo di plastica, un bel esemplare di kololoki. Non so che nome scientifico abbia, ma è sicuramente uno dei più bei papilionidi malgasci e qualche adulto, dopo averlo catturato, gli aveva legato un filo leggero attorno all'addome, dandolo alla bambina come giocattolo. Come mi capitò a Tamatave nel 2006, dove al posto della farfalla c'era un grosso coleottero trasformato in macchinina per un bambino, così anche in questo caso sono intervenuto, non senza trepidazione, per riscattare la piccola alata prigioniera. Sarà stato per la concitazione con cui supplicavo Tina di aiutarmi, che invece se la rideva di gusto, ma la bambina, dopo aver intascato i 200 ariary di mia moglie, è scappata spaventata. Così mi disse Tina. Io armeggiavo con lo zainetto per prendere qualche caramella, onde far sì che la bambina non patisse troppo della perdita del giocattolo, ma quando sono riuscito ad arrivare al sacchetto dei bon bon si era già dileguata.


Per fortuna, l'episodio è avvenuto davanti alla proprietà di una famiglia che Tina conosce e presso cui eravamo stati in visita il giorno prima. Il signor Daholy, infatti, vista la scena e i miei gesti impacciati, mi si avvicina con un paio di forbici. Io depongo a terra trolley e zainetto, frugo nelle tasche, estraggo la chiave della valigetta e finalmente, aprendo il beauty-case riesco a trovare le forbicine per le unghie. Poiché a me tremavano le mani (non potrei mai fare il chirurgo), il signor Daholy ha tagliato con perizia il filo di nylon e ha liberato il delicato addome della kololoki. Nonostante l'emozione del momento, sono riuscito tuttavia a fare un paio di foto, a differenza di quello che mi è capitato il 6 dicembre ad Antsirabe, quando eravamo in partenza per Tanà insieme ad Alessandro ed Ernestina, dove al posto di una farfalla c'era un voro tsihay hany, dai francesi chiamato Martin oiseau. Anche in quel caso, alcuni bambini avevano legato un cordoncino alla zampa del volatile e, presentandosi al mio cospetto come se si aspettassero la mia reazione, guadagnarono la bellezza di 2.000 ariary di mancia, andandosene contenti. In quell'occasione Tina era distante e non ho una documentazione fotografica della liberazione. A mangily, invece, ho fatto tutto da solo, tranne che tagliare il nastrino di nylon e ho molto ringraziato il signor Daholy, per questo. La prossima volta gli porteremo un regalo. Con la liberazione della farfalla, ho capito il motivo per cui dovevo essere lì in quel momento, cioè dovevo andare a Mangily l'otto e il nove gennaio. 

Rientrati a Tulear, il professor Bruno che alloggia al Vahombe da quasi due anni, mi propone di andare ad Andaboy, che i francesi chiamano “Batterie”. Vi ero già stato in moto pochi giorni fa, ma stavolta il professore mi invita ad andarvi a piedi, approfittando della bassa marea. Quattro Km di andata e quattro di ritorno, ritornando in tempo per gli spaghetti, e così, camminando nella melma e guadando un fiumiciattolo che attraversa un tratto di mangrovie, domenica 10 arriviamo in una bella spiaggia che, a detta del professore, è migliore di quella di Mangily. Non ho ancora verificato la trasparenza dell'acqua, ma non ho difficoltà a crederlo. Il fatto che non ci vada nessun vazaha dipende dalle aggressioni subite in passato da alcuni residenti bianchi, tutti francesi. Il primo ebbe il volto sfigurato dalle botte dei ladri, mentre la coppia di giovani francesi di cui ho già fatto cenno fu trovata morta proprio su quella spiaggia, per lo meno il corpo della ragazza. Da quella volta, né i turisti, né i ricchi Karana, la minoranza musulmana, ci vanno più. Ed è un peccato perché, anche se non ci sono chioschi con birra ghiacciata, c'è un bel paesaggio con dune ricche di vegetazione, oltre alla pace necessaria a ritemprare lo spirito, come dice il professore. La presenza dei pescatori che tirano a riva le reti è forse l'unico elemento di disturbo, almeno dal mio punto di vista animalista.

Nella foto, i due coraggiosi esploratori al momento della partenza, muniti entrambi di lefo (lancia) per tenere lontani i malintenzionati. O forse solo per darsi la sicurezza necessaria ad affrontare la temeraria impresa, sempre che i malaso non siano muniti di kalashnikov. E' probabile che tornerò ad Andaboy con il professor Bruno, ma quando avrò capito come intende arrivarvi Tina, se via terra o via fanghiglia, potrei anche decidere di fare il bagno in quelle acque, visto che finora ho provato la maschera solo nel mare torbido di Mangily. Se non ci fossero i banditi in circolazione, Tulear avrebbe una bella spiaggia fra le sue attrattive, ma la paura fa novanta e Mangily, in questo caso, ringrazia.

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