Fonte:
Huffingtonpost
Qualche anno fa
Mohit Satyanand decise di lasciare il suo lavoro full time per andare
a vivere, insieme alla moglie, alla pendici dell'Himalaya. Quando
tornò a Delhi perché per il figlioletto era giunta l'ora di andare
a scuola, niente fu come prima. Per lui il tempo aveva acquisito un
valore diverso e ciò che lo aveva spinto in passato a lasciare la
città l'aveva plasmato in modo irreversibile. Ecco la sua storia,
raccontata in prima persona su Quartz: "La vita è troppo breve per un lavoro a
tempo pieno. Troppo breve, e troppo preziosa. Il tempo non
controllato e misurato è un tesoro, le chiacchierate in libertà, i
pomeriggi che scivolano lentamente nella sera, le cene che sono
l'occasione per un ultimo caffè. Se siete come me, e trascorrete
interi inverni a guardare le lingue di fuoco che sfarfallano nel
camino, "non c'è mai tempo per fare tutto il nulla che vuoi",
come ha detto Bill Watterson. Ma non siete tenuti a dare retta a un montanaro
part-time, anticonformista full time, come me. Ma non sono il solo.
Carlos Slim, il secondo uomo più ricco al mondo, ha detto che
"Dovremmo lavorare solo tre giorni alla settimana". È
giunto il momento di rivedere radicalmente la nostra vita lavorativa.
Abbiamo bisogno di più tempo per rilassarci, per migliorare la
qualità della nostra vita.
Nel libro " Critical Path", l'eclettico
e futurista Buckminster Fuller prevedeva che l'aumento della
produttività mondiale avrebbe fatto sì che lavorare part time
diventasse un'opzione percorribile per tutti. Non siamo ancora
arrivati alla totalità, ma credo sia già una scelta per la maggior
parte dei lettori di Quartz, per lo meno. Quanto a me, ho trovato il
tempo di leggere Bucky quando con mia moglie decidemmo di andare per
un anno in luna di miele nel nostro cottage di pietra nel Kumaon. Una
mattina d'autunno, il sole brillava e l'Himalaya si stagliava nella
sua candida chiarezza. Mia moglie disse una preghiera per lo stato di
grazia in cui galleggiavamo. "Dobbiamo per forza tornare
indietro?" si chiese. Noi non l'abbiamo fatto, e abbiamo trascorso sei
ricchi anni nel nostro giardino nella foresta, a guardare le pesche
che maturavano e a cullare nostro figlio Toddle, godendoci il chiaro
di luna al bagliore delle candele. Quando abbiamo fatto ritorno a
Delhi perché nostro figlio doveva iniziare la scuola, sapevo che non
sarei più potuto tornare a lavorare a tempo pieno. Ero troppo
consumato dall'amore per la vita e la famiglia per legarmi di nuovo
all'orologio e alla routine quotidiana. Avevo bisogno della libertà
di trascorrere la giornata sul divano a leggere un libro, o a
prendere il sole nel parco. Avevo bisogno di avere del tempo per
ascoltare un amico che voleva parlarmi. Avevo bisogno di essere a
casa quando mio figlio tornava da scuola.
La vita moderna non è strutturata per fare spazio
a tutta questa eccentricità. Fu subito chiaro che per vivere avrei
avuto bisogno di una scrivania, di un ufficio, di partecipare a
lunghe riunioni, di lavorare fino a tardi. Continuai comunque ad
andare al parco, stendermi sul divano, abbracciando mio figlio al
rientro da scuola e accompagnandolo alle feste di compleanno a bordo
di una macchina scassata da anni di guida in montagna.
Quando arrivò lo stipendio, mi pagarono una
frazione del compenso previsto per un lavoratore della mia età e
formazione. Ne fui orgoglioso. Il progresso materiale ci dà la
possibilità di convertire la nostra potenzialità di guadagno in
maggiori consumi, o in più tempo da vivere. Io avevo fatto il mio, e
ogni giorno per me era una gioia. Recentemente ho letto i rimorsi dei
pazienti in fin di vita riportati nel libro di "The
Top Five regrets Of The Dying" di
un'infermiera australiana. In cima c'era questo: "Aver perso la
giovinezza dei propri figli, e la compagnia del loro partner".
Credo che i nostri figli siano l'eredità che lasciamo e hanno
bisogno di amore e tempo. Quando mio figlio compirà 16 anni, si
affaccerà al mondo, portando con sé i suoi pregi e i miei difetti.
Ma la disattenzione non sarà tra questi". La
settimana scorsa sono stato ad Ahmedabad, per un briefing con un
gruppo di studenti per un progetto sul diritto di proprietà cui
avevo lavorato anch'io. Dopo l'incontro mi hanno fatto delle domande
sugli anni trascorsi in montagna. "Anch'io potrei dire: 'Voglio
andarmene lassù", ha detto uno di loro "Ma chi me lo
permette?". "Ricordate questo" ho risposto, "non
serve l'autorizzazione di nessuno per essere se stessi". Quando
sono tornato, ho riletto il libro dei rimpianti: "Vorrei aver
avuto il coraggio di vivere una vita fedele a me stesso, non quella
che gli altri si aspettavano da me"."
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