Tutt’e tre le volte che ho dato la macchina fotografica digitale
ad Artophin, affinché mi scattasse delle foto ricordo, il ragazzo ha
premuto il pulsante di spegnimento anziché quello di scatto. Non è
colpa sua, giacché quel tipo di macchinetta Canon ha i due pulsanti
vicini. Di fatto, non ho foto ricordo di me con in mano i piccoli
fossili che abbiamo raccolto, né quella dove reggo alcuni nidi
caduti del passero repubblicano, alla base dell’albero dove quella
specie di ploceide gregario ha posto la sua colonia. Il luogo dove il
2 maggio siamo stati, lo conosco da dieci anni. Si chiama “La
Table”, a causa della sua forma e ricorda una Table più famosa,
quella che sovrasta Johannesburg, in Sudafrica. Magari le due Table
hanno storie geologiche diverse, ma per somigliarsi si somigliano.
Alla Table di Tulear ci andavo dieci anni fa quando abitavo ad
Ankilibe e ci arrivavo in bicicletta. Stavolta, io e Artophin, anche
lui conosciuto una decina di anni fa, ci siamo andati con il “Bajaji”
di Jaina.
Ho scelto un “Tre ruote” a motore, anziché un “pousse
pousse”, perché, finito il rettilineo, bisogna affrontare una
salita con alcune curve e con il triciclo a pedali avremmo dovuto
scendere e spingerlo, se si voleva arrivare in cima, dove sono stati
costruiti alcuni gazebi in cemento. La prossima volta ci vado in
pousse pousse e chiederò al nostro conducente di fiducia,
Sambendaty, di aspettarmi alla base della montagna. Il prezzo, andata
e ritorno, è inferiore con il triciclo, ovviamente.
Quando Jaina ci ha fatto scendere dal Bajaji, apprestandosi ad
aspettarci all’ombra di un gazebo, non c’era nessuno. Sulla RN7
passavano le carrette trainate dagli zebù e i ciclisti che ogni
mattina vanno in città a vendere sacchi di carbone. Ho lasciato a
Jaina tre vecchi giornali, così che passasse il tempo, e un
pacchetto di “kakapigeon”. Poi, al rientro, per spegnere la sete
ci saremmo fermati in un bar per una birra. Avevamo preventivato di
star via due ore e invece siamo tornati dopo un’ora e mezza ma, al
nostro ritorno, ci aspettava una sorpresa: un sedicente guardiano,
con tanto di cartellino di riconoscimento appeso al collo, era seduto
sulla sponda del gazebo insieme al nostro autista. Sul momento, non
mi ero accorto dell’espressione preoccupata di Jaina. Quando mi ha
spiegato che il guardiano chiedeva 10.000 ariary ho capito il perché.
Quello che non ho capito è per cosa erano dovuti quei soldi, se per
il parcheggio del Bajaji presso i gazebi o se perché io e Artophin
ci siamo inoltrati nella boscaglia. Cos’è diventata la Table, un
parco naturale?
Naturalmente, mi sono rifiutato di pagare e il sedicente
guardiano, visibilmente contrariato, ha preso il numero di targa del
mezzo. Da qui la preoccupazione di Jaina. Io mi domando e dico: se
veramente quello è il suo lavoro, il guardiano avrebbe dovuto
trovarsi sul posto quando siamo arrivati ed avvisarci della tariffa.
Cartelli che segnalassero l’obbligo di pagare un pedaggio non ce
n’erano da nessuna parte. Se ci avesse avvisato del biglietto da
pagare, avrei chiesto a Jaina di andare a parcheggiare altrove, anche
sotto il sole e io e Artophin saremmo andati comunque verso la
collina fossilifera, senza farci vedere dal guardiano. Ancora un po’
e in Madagascar mi faranno pagare anche l’aria che respiro, in
quanto vazaha, mentre i malgasci possono respirare a gratis. Io
comunque, anche se la gita ha avuto il “venenum in cauda”, un’ora
e mezza a cercare bivalvi e gasteropodi fossili e a osservare il
paesaggio dall’alto della montagna, l’ho passata con piacere.
Idem, presumo, Artophin, che per avermi accompagnato si è preso
10.000 ariary, mentre Jaina l’ho pagato 25.000. Artophin mi diceva
il nome degli uccelli che sentivamo cantare o che vedevamo fra i
cespugli, ma li ho dimenticati, tranne il “Draki” che è corto e
facile da ricordare. Suggestivo è stato l’albero dei ploceidi, che
in quel momento erano assenti. Non ho capito se la nidificazione è
finita, poiché qui è inverno, ma presumo di sì, visto il gran
numero di nidi caduti a terra.
Il giorno dopo, quasi a voler rimarcare il principio magico della
sincronicità degli eventi, ho trovato in rete un proverbio che non
conoscevo: “Non è scemo quel che chiede, quant’è scemo quel che
concede”. E’ molto simile al friulano: “Cjalcje boton, salte
macaco”, schiacci il pulsante e salta fuori la marionetta. Lui, il
presunto guardiano della Table, non è stato scemo a chiedermi dei
soldi, ma nemmeno io a darglieli. Artophin ha sbagliato pulsante,
quando mi scattava le foto, ma il tipo con il cartellino di
riconoscimento no. Quel pulsante lì, quando i malgasci vedono uno
straniero, lo premono insistentemente e lo sanno fare bene.
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