domenica 5 gennaio 2014

La sacralizzazione della violenza




Testo di Claudio Naranjo

E’ difficile mettere in dubbio che i primi umani abbiano sofferto il trauma di una grande minaccia alla propria sopravvivenza: la storia della nostra specie ebbe inizio durante l’ultimo periodo glaciale, quando la minaccia del freddo si unì a quella della fame, e la necessità di sopravvivere in condizioni tanto precarie portò sicuramente con sé quella di uccidere, a volte altri esseri umani. Ciò è paradossale. E’ molto interessante considerare come, in origine, la religione fosse intimamente legata ai sacrifici, che prima furono umani e poi si trasformarono in animali per giungere infine ai sacrifici simbolici ed alla concezione psicologica del sacrificio dell’io. E credo che ci aiuti a comprendere sia il trauma originale della nostra specie, sia l’origine dei riti sacrificali, un costume osservato in tempi non molto lontani tra gli esquimesi, che dopo aver allevato un orso polare, come un animale domestico amato, lo preparavano per la transizione felice verso una vita migliore prima di sacrificarlo e mangiarselo. Non è difficile capire empaticamente la loro situazione psicologica di dover riconciliare l’amore con la necessità di uccidere per sopravvivere. Il rito sacrificale, possiamo dire, è un modo per decriminalizzare una violenza inevitabile attraverso una sacralizzazione compensatoria ed allo stesso tempo espiatoria. Con l’andare del tempo, tuttavia ci abituiamo a considerarci padroni della creazione ed a rendere triviale la morte non solo di animali ma - soprattutto in epoca di televisione - di esseri umani.

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