Siamo stati abituati a pensare che Hollywood sia una potentissima arma in mano ebraica, ai fini della manipolazione mentale delle masse. Eppure, tra i tanti messaggi che i film americani ci trasmettono, ve ne sono alcuni innocui, cioè che non mirano a esaltare il popolo eletto o a mostrare quanto siano cattivi i Gojim, ma che ci indicano verità inconfutabili e politicamente neutre. Una verità che in questo film mi pare di aver colto è che tutti dobbiamo morire e che è meglio cercare di vivere apprezzando le cose belle che la vita può offrire. Come corollario a questo banale enunciato, vi è l’ammirazione verso coloro che, nella disgrazia, riescono a risollevarsi mediante la cosiddetta resilienza, esercitata in modo tale da favorire il prossimo, altruisticamente, piuttosto che danneggiandolo. E’ ciò che fanno l’Adamo e l’Eva tecnologici, soli nello spazio profondo, responsabili verso la propria specie addormentata nel criosonno. Ma mentre nella Genesi biblica è Eva la peccatrice, nel film è l’Adamo, incapace di stare solo, anzi ai limiti della pazzia e quasi obbligato a commettere un omicidio virtuale, a coinvolgere nella sventura un’anima a sé confacente, da destinare alla dannazione e all’ergastolo su una lussuosa prigione dorata. C’è un tentativo tardivo di redenzione, quando l’Adamo vuole sacrificarsi per la sua compagna di schiavitù e per il resto dell’umanità vagante e inconsapevole. Ma qui avviene il miracolo: Eva lo salva resuscitandolo, con quelle tecnologie aliene che anche gli Elohim avevano. Non c‘è il lieto fine, non per i protagonisti, anche se l’umanità viaggiante ricomincia su un nuovo pianeta, come dopo ogni brava apocalisse.
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