martedì 31 maggio 2016

Non tutto nel mondo può essere economia



Pochi giorni fa mi è capitato di vedere un filmato su Raidue, nell’ambito del programma Cronache animali, che mi ha profondamente turbato. Illustrava le condizioni dei cani della colonia penale dell’isola di Gorgona — protagonisti fino a un anno fa di un coraggioso e importante progetto di rieducazione terapeutica dei detenuti — trasformati ormai in macilenti scheletri chiusi in un recinto. Conosco questa realtà da diversi anni grazie all’amicizia con Marco Verdone, per venticinque anni coraggioso veterinario dell’isola, e alle fotografie di un’altra mia cara amica austriaca, Rachele Zecchini, che ha saputo testimoniare su giornali italiani ed europei questo meraviglioso esperimento di cooperazione tra umani e animali che aveva dato, seppure per poco tempo, risultati davvero sorprendenti, con un tasso di recidiva e un consumo di farmaci e psicofarmaci tra i detenuti assai inferiore alle carceri «chiuse». 

 
Una delle ultime colonie penali agricole.
L’isola di Gorgona, infatti, oltre ad essere un paradiso naturalistico inserito nel parco dell’Arcipelago Toscano, è stato fino al 2015 — quando la gestione del carcere, da realtà autonoma è diventata una Sezione distaccata del carcere di Livorno — anche un paradiso penitenziario. A Gorgona infatti si trova una delle ultime colonie penali agricole italiane, colonia che, negli ultimi anni, è stata oggetto di una profonda riflessione sugli esiti della violenza in campo rieducativo. Violenza non sui detenuti, ma sugli animali da loro accuditi. È giusto, ci si è chiesto, se persone che hanno avuto a che fare nella vita, a livelli diversi, con la violenza, si trovino, nel loro percorso rieducativo, a esercitarla ancora una volta, macellando gli animali a loro affidati? Da questo percorso è nato il progetto L’isola che c’è (www.ondamica.it) ispirato alla non violenza e al rispetto dell’alterità umana e animale, che ha portato alla chiusura nel 2014 — anche per grosse carenze igienico sanitarie — del macello presente da sempre sull’isola, chiedendo in contemporanea un decreto di grazia per gli animali sopravvissuti. Animali che, nel tempo, sarebbero stati «adottati» da varie scolaresche toscane per rendere ancora più consapevole la tutela e il rispetto di queste creature. 
 
La scelta di firmare.
Ma questo idillio, purtroppo, è durato poco. Nel 2015, dopo cinque lustri di attività, Marco Verdone è stato trasferito, seguito subito dopo dal direttore del carcere, Carlo Mazzerbo, che appoggiava entusiasticamente l’esperimento. Con la nuova direzione, a Pasqua 2016 il macello è tornato in attività. Gli animali dunque sono tornati ad essere da «cooperatori della rieducazione» a normale carne da consumo. Non posso non chiedermi: che senso ha tutto questo? In un Paese come il nostro che riceve continue ammonizioni dall’Europa per il trattamento diseducativo del nostro sistema carcerario, avevamo un progetto pilota da ammirare e copiare. Ora questo gioiello lo abbiamo annullato per mere questioni economiche. «Gli animali che non producono, costano», sostiene la nuova direzione. Ma non tutto nel mondo può essere economia. Certo pensare di far morire tutti gli animali di morte naturale ha il sapore di un’utopica follia ma forse, in una realtà piccola e motivata come questo, l’utopia potrebbe trasformarsi in segnale di speranza. 

Per questo avevo deciso di firmare l’appello che accludo, che aveva trovato sostenitori in molti politici di tutti gli schieramenti, ricevendo già diversi appoggi a livello istituzionale. Ma, malgrado le buone intenzioni, come spesso accade in Italia, tutto sembra essersi di nuovo fermato. Peccato. Prima o poi bisognerà riuscire a capire perché, quando facciamo qualcosa di buono, in poco tempo lo rendiamo vano.

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