martedì 13 gennaio 2015

Le bufale, un tempo chiamate leggende metropolitane

 
Fonte: Repubblica

Testo di Rosita Rijtano

ROMA - Per trovare mondi paralleli non bisogna andare lontano, nessun viaggio intergalattico: basta accendere il personal computer, collegarsi alla Rete, e aprire Facebook, dove coesistono diversi universi destinati a non incontrarsi mai (o quasi) e popolati da utenti con gli stessi interessi, le stesse paure, la stessa dieta mediatica. Ed è qui, nella presunta genesi di microcosmi digitali, che - secondo alcuni studiosi - si nasconderebbe il segreto della viralità delle burle internettiane. "Le bufale si diffondono tanto, e velocemente, semplicemente perché sulla rete sociale tendiamo a fare amicizia con persone simili a noi, che fruiscono i nostri stessi contenuti", spiega Walter Quattrociocchi, informatico, coordinatore del Laboratory of Computational social science dell'IMT di Lucca.


Un like tira l'altro, insomma: questa sarebbe la formula magica, la chiave che ci permetterebbe di capire perché alcuni post, anche se palesemente farlocchi, hanno molto successo sul social network di Mark Zuckerberg. Prevedibile, forse. Un conto però è la teoria, un altro paio di maniche è la dimostrazione matematica, scientifica. Quattrociocchi sostiene di averla fatta in un nuovo studio, dal titolo "Viral Misinformation: The role of Homophily and Polarization" (tradotto come  "Disinformazione virale: il ruolo dell'omofilia e della polarizzazione"), condotto con altri sette ricercatori, dislocati in diverse università italiane, e che Repubblica.it ha potuto visionare in anteprima.

Complottisti contro scienziati. Bisogna fare un paio di necessarie premesse. Il paper affonda le sue radici in diversi lavori precedenti. Sempre targati IMT. "Una trilogia del complotto", l'ha definita Fabio Chiusi su Wired. Dove il team ha, di volta in volta, vivisezionato le abitudini di milioni di italiani sulla piattaforma di Menlo Park, in base al modo in cui si informano sul social (se fanno riferimento ai media classici, o a dei siti scientifici, o a quelli di informazione non tradizionale), per arrivare a interessanti conclusioni. Non solo, per l'appunto, che su Facebook "chi si somiglia si piglia". Ma anche che "le varie categorie di utenti, da noi prese in esame, interagiscono molto poco tra loro", spiega Quattrociocchi, "e quando lo fanno litigano, si insultano, ognuno resta della sua idea, poco importa se sia giusta o sbagliata". Non solo: "Appassionati di scienza e complottisti, cioè quegli internauti che si informano su pagine definite alternative, dedicano alle diverse news che leggono la stessa quantità di attenzione, tutto indipendentemente dalla qualità dell'informazione, e persino dalla sua veridicità, perciò le notizie false hanno la stessa rilevanza delle notizie vere".

E chi, fra gli utenti, ha più probabilità di scambiare la bufala, o la satira, per un fatto reale? - è la successiva domanda quasi obbligatoria. Il ricercatore non ha dubbi: "Osservando i contenuti a cui è generalmente esposto chi la condivide,  troviamo i fan delle pagine di controinformazione, cioè di notizie difficili da verificare. Esempi: Lo Sai, Vaccini e Basta o Coscienza Sveglia". Se siamo disposti a fare un passo in più, in un altro paper che - anche in questo caso - abbiamo avuto in preview, Quattrociocchi & Co. suggeriscono la fede politica di molti "creduloni" digitali. "Questa tipologia di utenti scrive il 27,13 per cento dei commenti che ci sono sulla pagina di Beppe Grillo", chiosa il ricercatore. Insomma, stando ai lavori del gruppo IMT, seppur con tutti i dubbi che può lasciare un'analisi non generalizzabile, limitata a un solo Paese e a determinate tipologie di alimentazione digitale, ci comportiamo così sulla rete sociale più popolare al mondo. Che conta 1 miliardo e 350 milioni di iscritti. Una bordata per chi sostiene che internet sia necessariamente il luogo dell'intelligenza collettiva.

Bufale virali: il ruolo di omofilia e polarizzazione. Ma come, queste dinamiche relazionali, influiscono sulla diffusione pervasiva della disinformazione? Ed ecco che si arriva al nuovo studio, un monitoraggio spalmato nell'arco di 4 anni, e diviso in due fasi. Nella prima gli informatici hanno analizzato post e like di 73 pagine aperte in Italia sul network firmato Zuckerberg: 34 scientifiche (Science & Co.), e 39 cospirazioniste (Lo Sai & Co.). "Così", prosegue Quattrociocchi, "siamo riusciti ad inquadrare come si comportano 1,2 milioni di utenti nostrani (su 25 milioni di utenti attivi al giorno, secondo i dati che ci ha fornito un portavoce di Facebook, ndr), e a stabilire matematicamente che il numero di "Mi piace" su un determinato post è direttamente collegato all'omofilia, cioè al numero di amici che consumano lo stesso tipo di contenuto". In concreto: più il fake è condiviso da persone che conosciamo, e più aumentano le possibilità di essere contagiati dalla burla a nostra volta. Mentre nulla contano hub e influencer, anzi: la probabilità di trovarne uno diminuisce all'aumentare della viralità della news. Per il secondo step, invece, la lente del team ha zoomato su 4,709 annunci fasulli, messi in circolazione da due pagine satiriche: "Semplicemente Me" e "Simply Humans". Bufale, ma considerate vere dai naviganti. Spiega l'informatico: "Sono state tutte ripubblicate da utenti molto polarizzati, cioè in media con circa l'80 per cento di like su fonti di informazione complottarda, difficili da controllare. Trovato uno, trovati tutti. Perché, grazie all'omofilia, possiamo individuare con esattezza la rete di amicizia di ognuno di loro".

Il problema non è il mezzo: "Manca una preparazione scientifica". "Un lavoro impostato su un'interessante mole di dati", commenta David Lazer, professore alla Northeastern University, e uno dei papà della Computational social science, la disciplina che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. "Ma non sappiamo niente di ciò che succede al di fuori del social network preso in esame, cioè di Facebook, come per esempio nelle mailing list". Lo stesso concetto di disinformazione - secondo Lazer - è troppo vasto per poter esser ben inquadrato. Aggiunge: "Ciò che è disinformazione per uno, può essere informazione per qualcun altro. Si tratta, del resto, di un fenomeno che esiste da sempre. Per cui sarebbe più interessante chiederci: quanto internet e i social network lo agevolano rispetto ai media tradizionali?". Trovare una risposta è difficile. Certo, sul web le bufale si diffondono velocemente. "La disinformazione digitale" è "uno dei principali rischi della società moderna", ha ammonito il report 2013 del World Economic Forum. E dalla piattaforma di Menlo Park passa una fetta sempre più consistente delle news che mastichiamo ogni giorno. Ma è anche vero che, quando e se vogliamo, possiamo ottenere la news più corretta e completa. Con lo stesso click. Con lo stesso strumento. Con la stessa velocità. Per Rosaria Conte, scienziata cognitiva e vice presidente del Consiglio scientifico del Cnr, il problema quindi non è il mezzo, "ma la mancanza di una preparazione scientifica da parte di chi fornisce, e fruisce, le notizie". Conclude: "A essere virali non sono tanto le bufale, ma le informazioni non verificate, e la loro conseguente accettazione acritica, un atteggiamento da abbandonare". In questo mondo. Come in un altro, parallelo.

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