martedì 12 agosto 2014

Vendesi foresta


Domenica 10 agosto eravamo nella foresta alle spalle di Mangily. Vi sono stato già diverse volte, negli anni scorsi, da solo o con Tina. La prima volta, trovata una tartaruga, mi aveva detto che per la loro etnia è fady, tabù e che non solo non le mangiano, ma evitano anche di toccarle. Così, per insegnarle la differenza tra realtà e superstizione, le ho chiesto di toccarla, per farle vedere che, una volta toccata, le dita delle mani non le sarebbero cadute. Lo fece di malavoglia e infatti, come avevo previsto, le dita non le sono cadute. A seconda della stagione, nella foresta spinosa di Mangily trovavo coleotteri, sauri come il razamboa e il sondro, nonché il boa del Madagascar; uccelli di terra e d’aria, come, rispettivamente, le akanga (faraone) e il cuculo dallo sperone. Di mammiferi c’è il vontira, in italiano microcebo murino, ma è impossibile vederlo di giorno. Pesci e anfibi niente, visto l’ambiente arido e spinoso. Dunque, vi trovavo principalmente rettili come i camaleonti e le dangalie, simili a lucertole e tantissimi insetti. La vegetazione è costituita da fichi d’India, Sono che viene usato per le recinzioni, baobab ed euforbie varie, oltre ad alcune specie di agavi tra cui l’aloe vera, chiamata vaho, usatissima nella farmacopea malgascia e mondiale.


Da diverso tempo Tina mi diceva che per rendere il terreno appetibile dal punto di vista speculativo, si bruciano gli alberi, così da invogliare vazaha e malgasci ricchi a comprare pezzi di quella che un tempo era foresta. Ho tristemente notato che è vero. Facevano pena i cinque o sei sifotsy, chiamati anche boloko, oppure vasa e che in definitiva sono pappagalli neri, che abbiamo visto posati tutti sullo stesso albero. Una volta che sarà tagliato anche quello, dove andranno a nidificare, o anche solo a posarsi?

Alle 8.20 del mattino eravamo davanti alla casa di Refily, che il giorno prima aveva sottoposto a circoncisione quello che credevo fosse suo figlio e che – abbiamo scoperto poi – era invece suo nipote, figlio di sua figlia. Sabato, un po’ per scherzo un po’ perché in qualche modo dovevamo scortecciare gli alberi caduti, gli avevo chiesto di portare lefo, lancia, folesy, fionda, famaky, scure e lui, per strafare, di scuri ne ha portate due più una frombola, che in malgascio si chiama pilatsy. Essere armati durante le visite alla foresta è più che altro una protezione di tipo psicologico, perché se si dovessero incontrare i malaso, i banditi, saremmo ugualmente inermi di fronte alla loro determinazione e cattiveria. Per fortuna, come per le strade, anche la foresta di giorno è sicura, a differenza della notte. E poi non ci siamo spinti troppo lontano.

Anche se ha sottoposto suo nipote a un rito barbaro e ancestrale, Refily è un uomo gentile, di etnia Masikoro (quelli che mangiano i gatti) e la sua caratteristica è che ride sempre, non nel senso dispregiativo del nostro proverbio: “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, ma perché quello è il suo modo di comunicare con il prossimo, cioè mettendolo a proprio agio e dimostrando disponibilità e non pericolosità. E’ un fenomeno raro e mi era capitato di incontrare persone così anche in Italia. Quando lo abbiamo conosciuto anni addietro era guardiano notturno Chez Alban. Oggi fa lo stesso lavoro al Dune Hotel, un albergo a cinque stelle. Entrambi si affacciano sul mare. Domenica, come tutti i giorni, aveva smesso di prestare servizio alle sei del mattino e alle otto è venuto con noi come guida, ma non era per niente stanco.

Anche quest’anno ho voluto essere io a portare il lefo, più che altro per sentirmi partecipe degli stili di vita del sud malgascio, ma nella realtà solo per far divertire le rare persone che abbiamo incrociato, dal punto di vista delle quali dev’essersi trattato di una visione piuttosto buffa: un vazaha con la lancia. Quando dovevo mettere mano alle macchine fotografiche, la digitale e l’analogica, piantavo il lefo nella sabbia dalla parte opposta della punta, che è munita di un’asta di ferro utile come leva. A Refily il compito di rompere i tronchi resi friabili dalle termiti.

C’era un’infinità di tronchi abbattuti, la maggior parte dei quali per opera dell’uomo, ma in parte anche per quella delle termiti, che in malgascio si chiamano neno. Tina e Refily non capiscono l’utilità degli insetti demolitori, perché le neno hanno la brutta abitudine di mangiare anche le case degli uomini e infatti non c’è camera d’albergo che di notte non abbia come sottofondo il suono del legno rosicchiato. Perfino al Pavillon de Jade, in piena città a Tanà, gli stipiti delle porte sono sotto attacco. Per questa ragione, per i notevoli danni che questi bianchi insettini lucifughi compiono, i malgasci si fanno costruire i mobili in palissandro, inattaccabile dalle termiti. Chi può permetterselo, ovviamente. Ma in natura è diverso. Cosa succederebbe se non esistessero spazzini e distruttori? Il mondo vegetale avrebbe il sopravvento e non ci sarebbe più spazio fisico per gli organismi deambulanti.

A causa della stagione fredda (si fa per dire) camaleonti e coleotteri non si sono fatti vedere. Le dangalie sono uscite sul tardi e di sondro, che ancora più della dangalia è simile a una lucertola, ne ho visto uno solo di piccole dimensioni. Le dangalie stavolta non le ho fotografate, benché siano confidenti, perché negli anni scorsi di loro foto ho fatto incetta, in tutte le salse. Il sondro invece è difficile da fotografare, mentre il razamboa, simile a un ramarro color crema, si lascia avvicinare a breve distanza. Non c’è voluto molto, però, rimuovendo le cortecce degli alberi a terra, trovare le sanda, una specie di scuro scarafaggio corazzato che si trova anche nelle case dei villaggi e che soffia aria da qualche suo pertugio quando disturbato. Qui ne vediamo uno insieme a uno scorpione.

Questi ultimi, chiamati hala, sono molto temuti ed è facile capire perché. Un gasy che stava disboscando poco distante, ci ha chiamato perché ne aveva trovato uno grosso e ce l’ha portato su una corteccia, come su un vassoio. Tutti gli insetti che abbiamo scovato probabilmente stavano dormendo in quella che si potrebbe chiamare ibernazione, termine che fa venire in mente la neve e il ghiaccio del Paleartico, ma che indica solo la pausa invernale a cui anche gli animali dei tropici si sottopongono. Che poi, qui sul Capricorno, valgono altre regole, come vedremo fra poco con quella che è stata la chicca della giornata e, per me, una vera sorpresa. Degli scorpioni so poco. So solo che sono aracnidi molto antichi, quasi dei fossili viventi e a Tanà i cinesi li usano nella loro farmacopea.

Di un’altra specie interessante voglio parlare: il tsakoririky, una cavalletta carnivora che ho scoperto proprio qui a Mangily nel 2008 e sempre grazie a Refily nei panni dello scortecciatore. Fino a quell’epoca, non pensavo minimamente che potessero esistere cavallette carnivore, se escludiamo le mantidi, avendole sempre associate al consumo di erba e foglie. Chiesto conferma a Refily sull’alimentazione del curioso ortottero, mi è stato detto che mangia piccoli insetti e rosicchia anche il legno. Presumo che in realtà mangi funghi o muffe che crescono sulla corteccia, dato che gli unici insetti capaci di digerire la cellulosa sono le termiti. Anche questa cavalletta, al pari della sanda, se toccata emette un soffio d’aria di avvertimento e se si esaminano i colori, giallo e nero, si constata che sono gli stessi di api e vespe, cioè colori di pericolo per mettere in guardia gli eventuali malintenzionati.

Infine, ecco la vera sorpresa: il marotanaka, letteralmente “molte mani”. In realtà ne ha otto come tutti i ragni, ma le dimensioni sono impressionanti. Niente a che vedere con le migali amazzoniche, chiamate appunto ragni giganti, ma anche questo trambo, ragno, fa la sua sporca figura, con i suoi sei centimetri di larghezza da un’estremità all’altra delle lunghe zampe. Mia figlia Orsetta, aracnofoba, se solo lo vedesse cadrebbe svenuta, ma per fortuna a Trieste non ce ne sono di così grossi. Uno dei tre che abbiamo trovato sotto una corteccia avrà avuto una cinquantina di bebé bianchicci, che si sono sparpagliati dappertutto una volta venuti allo scoperto. Per fortuna, data la stagione, non ci devono essere molti predatori in circolazione, cosicché hanno potuto trovare rifugio entro breve tempo. Anche la madre ha fatto il giro del tronco e si è solo spostata un po’, senza dar segni di nervosismo. A darli piuttosto ero io, che mi sono dovuto avvicinare il più possibile per fotografarla.

Refily scortecciava e guardava dentro la cavità dei tronchi senza guanti. Se fosse stato morsicato da un marotanaka o da un hala, o anche da un tsakoririky, avremmo dovuto portarlo di corsa da un ombiasy. Sicuramente ce ne sono anche a Mangily. Noi, quelli di noi che sono previdenti e accorti, quando facciamo un’escursione in montagna, ci portiamo dietro il siero antivipera. Qui in Madagascar, Refily e gli altri disboscatori dovrebbero portarsi dietro il siero per una mezza dozzina di animaletti velenosi e quindi forse è più facile tenersi in tasca un talismano passe-par-tout, come solo gli ombiasy  malgasci sanno preparare. I quali, invece di tante stupidaggini, dovrebbero preparare qualche pozione magica per fermare la distruzione della foresta. Ma che funzioni veramente!

2 commenti:

  1. In verità qua da noi solo degli sprovveduti si porterebbero dietro il siero antivipera dati che pare essere più pericoloso della vipera stessa...

    Serpenti velenosi in Madagascar nulla?

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    1. Vero!

      Come in Sardegna e nelle altre isole del pianeta, anche in Madagascar non ci sono serpenti velenosi.

      Tuttavia, i malgasci ne sono ugualmente terrorizzati.

      Retaggio ancestrale.

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