sabato 13 agosto 2011

Il Capitan America di Predappio



Mentre stavo parlando del Duce e delle sue magnifiche opere di grandezza, di bontà, di volontà mi entusiasmavo e mi appassionavo, un bambino mi ha interrotto chiedendomi: “Signora maestra, ma il Duce è proprio un uomo?”
“Vivere dentro una scuola d’altri tempi”, a cura di Guido Sut – Kappavu edizioni, 1998
Quando sono andato a trovare il mio testimone di nozze ad Aviano, sono riuscito a farlo arrabbiare. Non è stato difficile. E’ bastato che gli facessi due domande e un’affermazione. Trovandomi presso il paese della pedemontana pordenonese che subisce la presenza della famosa base militare, ne ho approfittato per chiedergli cosa ne pensasse (1) dell’ipotesi che sotto il monte Piancavallo ci siano enormi caverne in cui i rettiliani lavorano in combutta con gli americani per danneggiare l’umanità. Gli ho chiesto, poi, se secondo lui (2) presso il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, meglio conosciuto come CRO, venisse fatta vivisezione. E queste erano le due domande. Infine, gli ho detto che (3) i valsusini hanno tutte le ragioni di opporsi alla costruzione del treno veloce, in virtù del principio dell’autodeterminazione dei popoli.
 
Per tutt’e tre le questioni, il mio amico A. D. P. si è notevolmente alterato, ma ciò che l’ha mandato di più fuori dai gangheri è stata la domanda sui rettiliani e anche di questo bisogna ringraziare quel subdolo disinformatore inglese, nonché Gran Maestro di Discordia, che risponde al nome di David Icke. Il quale probabilmente non aveva previsto che le sue fantasie rettiloidi avrebbero causato turbamento nei caratteri irascibili, fino al punto di generare aspre, inutili e anche un po’ surreali polemiche. Per il mio testimone di nozze, evidentemente, vale il proverbio: “Per chi ha voglia di litigare, tutte le mosche sono elefanti”.
Anche mia zia si è arrabbiata, dopo aver letto questo mio articolo precedente:


E la frase che l’ha fatta imbestialire di più è stata questa: “Posso immaginare quante bacchettate diedero a generazioni di figli di contadini quando sbagliavano la pronuncia o commettevano errori d’ortografia”.
Stavo parlando dell’operazione di pulizia etnico-culturale compiuta nella mia regione da schiere d’insegnanti italiani e temo che anche nel caso di mia zia valga il principio della mosca e dell’elefante, poiché da quella frase si capisce che non facevo affermazioni perentorie, ma avanzavo un’ipotesi. Sono partito infatti dal dato del carattere autoritario di mia nonna e l’ho unito al contesto sociale dell’epoca, che permetteva agli insegnanti di infliggere punizioni corporali agli scolari indisciplinati. Facendo due più due, ho potuto scrivere che immaginavo un gran numero di punizioni inflitte a coloro che imparavano la nuova lingua più lentamente e facendo più errori degli altri.
Tuttavia, anche se le punizioni erano legalmente consentite, non significa che tutti gli insegnanti vi facessero ricorso. La norma era che gli errori grammaticali dei bambini venivano corretti dal docente con estrema pazienza e anche con una certa dose di amorevolezza, mentre l’eccezione che conferma la regola erano proprio quella minoranza d’insegnanti maneschi che elargivano scappellotti per questa e per altre manchevolezze.
Mentre per il nonno ho la certezza che non ha mai fatto del male a una mosca (quella dell’elefante), su mia nonna ho il sospetto che, dato il suo carattere autoritario, qualche punizione corporale ci sia scappata più di una volta, in 47 anni di onorata carriera.
Anche perché ho una testimone più che attendibile, che conferma ciò: mia madre, che la maestra in questione, sua madre, deve averla conosciuta molto bene. A suo dire, in quei tempi le tirate d’orecchio erano normali e frequenti.
La questione però non è se gli insegnanti elementari negli anni tra le due guerre elargissero o meno punizioni fisiche, ma quale ruolo svolsero nella terra dove erano stati mandati a svolgere il loro operato.
Se analizziamo la faccenda sul piano sociologico, ci rendiamo conto che il loro appassionato lavoro è stato una testa di ponte dell’opera di colonizzazione di una terra marginale, rimasta sotto il cosiddetto dominio straniero per secoli, da parte del neonato governo italiano, a partire dal 1861. Anzi, nel caso del Friuli occidentale, a partire dal 1866, mentre per quello orientale, Venezia Giulia compresa, la data di partenza della colonizzazione deve farsi risalire al 1919.
In altre parole, l’unificazione dell’Italia, che fu voluta da un ristretto numero di massoni in combutta con il governo sabaudo, aveva necessità di fare tabula rasa della lingua e della cultura ladine, esattamente come fanno tutte le dittature e i governi imperialistici.
Se Hitler avesse vinto la guerra, qualcosa di simile ci sarebbe capitato con i cosacchi, a cui il Fuhrer aveva promesso il Friuli, visto che in Russia non potevano più vivere. Si tratta di vedere se le nuove autorità cosacche sarebbero state capaci di armonizzare le due culture, integrandosi pacificamente con i padroni di casa (non più padroni) o se avrebbero fatto stragi dei “ribelli”, cancellato la parlata locale e imposto a tutti i bambini delle scuole la lingua cosacca. La domanda non è peregrina, giacché, di tutte le invasioni barbariche che abbiamo avuto, anche se si dovrebbe più giustamente chiamarle migrazioni, vi sono state quelle che hanno sparso sangue e distruzione e quelle che hanno saputo armonizzare i due popoli, l’autoctono e l’alloctono.
In ogni caso, parlare di un Friuli trasformato in Cosaccolandia non ha molto senso, poiché non si sa che direzione avrebbero preso gli avvenimenti, ma parlare di ciò che è successo effettivamente dopo l’arrivo degli italiani è non solo lecito ma doveroso.
Dunque, ricapitolando, i miei nonni materni vennero ad insegnare nelle scuole elementari della bassa pianura friulana nel 1920. Due anni dopo furono obbligati a iscriversi al partito fascista, pena licenziamento. Se l’opera di annullamento della lingua ladina era cominciata già dal 1866, con l’avvento del ventennio fascista la situazione divenne ancora più vergognosa: non solo il dialetto friulano era vietato in classe, ma generazioni di scolari furono imbottiti di retorica patriottica funzionale a produrre cittadini proni alle autorità e soldati obbedienti agli ordini. Anche la cultura locale fu obliterata da una caterva di nozioni estranee al mondo contadino. Tanto è vero che molti anni più tardi, le indicazioni del ministero della pubblica istruzione suggeriranno ai docenti di “partire dal vissuto del fanciullo”, esattamente ciò che gli insegnanti giunti dall’Italia fra le due guerre si sono guardati bene dal fare. Ovvero, compiuta l’opera di cancellazione delle parlate e delle culture locali, il ministero ha emanato istruzioni diametralmente opposte a quelle in vigore nella prima metà del secolo, perché evidentemente la frittata era già fatta e l’omologazione era a buon punto.
I friulani, che sono di indole pacifica, hanno lasciato che si assassinassero la loro lingua e cultura, accettando il destino che gli era stato riservato di diventare muratori, domestiche, emigranti e, all’occorrenza, carne da cannone. Abituati com’erano a vedere la propria terra percorsa da invasori, hanno accettato anche i sabaudi, portatori di valori estranei e con la loro lingua straniera, benché proveniente anch’essa dal ceppo neolatino. Hanno messo in pratica la filosofia della cannuccia di palude, che si piega al vento, piuttosto che quella della quercia, che si spezza e cade. Era, in definitiva, una questione di sopravvivenza.
Pesante fu la retorica patriottica inculcata in quegli anni, come evidenziato nel rapporto di una maestra che nel 1936 spiegava il 4 novembre: “Le lapidi infiorate, le bandiere sventolanti, il religioso contegno di mille persone ti dicano, o fanciullo, che la Vittoria è dono sacro del quale tu pure devi essere fiero. La commemorazione di questa data, che ricorda quanti sacrifici ebbero a sopportare gli italiani, venne da me fatta il giorno prima delle vacanze. In chiesa, con la scuola al completo, era stato cantato il Te Deum”.
E avanti così per tutto il ventennio fascista.
Non ci si deve stupire se oggi alle sfilate degli alpini partecipano migliaia di uomini e se quando si esibiscono le Frecce Tricolori altre migliaia di devoti si assiepano nei pressi della base con il naso all’insù per vedere le solite acrobazie fumogene. Se oggi abbiamo una società che accetta le ipocrite missioni di pace all’estero, è perché migliaia di bambini sono stati indotti ad accettare l’ipocrisia della retorica patriottica. I responsabili di questo immane inganno vanno ricercati non solo nei cappellani militari, e nel clero in genere, ma anche negli umili insegnanti laici che contribuivano a ingannare gli studenti.
Quella maestra che lodava la vittoria italiana sugli austriaci, se avesse avuto un briciolo di onestà intellettuale e morale avrebbe dovuto dire che i sacrifici compiuti dagli italiani miravano all’uccisione in massa di altri cattolici viventi a nord delle Alpi e indossanti una divisa di colore diverso. Se fosse stata obiettiva, avrebbe dovuto dire che la prima guerra mondiale era voluta dai fabbricanti d’armi e che l’Austria ci avrebbe dato Trento e Trieste senza spargere una sola goccia di sangue, se solo noi lo avessimo voluto. L’unica attenuante è che forse nemmeno la maestra lo sapeva e dunque anche lei era ingannata dai suoi superiori. Quali sacrifici fecero gli italiani per contribuire alla vittoria? Forse le donne andarono a lavorare in fabbrica, per costruire munizioni. Forse l’agricoltura venne trascurata, con conseguente penuria di cibo. Forse dovettero affrontare periodi di fame e miseria. E tutto affinché i soldati al fronte non mancassero di armi, munizioni ed equipaggiamento. Dunque, sembra che l’intera popolazione italiana fosse concorde con la partecipazione alle operazioni belliche e come posso io assolvere un popolo convinto che sia giusto massacrare un popolo confinante? E, soprattutto, come posso assolvere quegli insegnanti che si resero complici della propaganda e della menzogna pur di presentare a migliaia di bambini un’immagine positiva di quella che in realtà era una volgare dittatura? Se devo assolvere gli insegnanti che contribuirono a tale tragedia, ammantandola di valori etici, devo anche assolvere i soldati nazisti che, uccidendo donne e bambini per rappresaglia, non facevano altro che obbedire agli ordini. Che differenza c’è tra un soldato tedesco della Wehrmacht e un maestro italiano del ministero della cultura popolare? Entrambi obbediscono a ordini ricevuti dai loro superiori. Entrambi accettano il principio di autorità. Entrambi ricevono uno stipendio con denaro sporco di sangue, perché se è ladro non solo chi ruba, ma anche chi tiene il sacco, è assassino non solo chi uccide materialmente, ma anche chi parteggia per il soldato al fronte e ne loda il valore militare. Se i cappellani militari mi fanno schifo, gli insegnanti patriottici mi fanno nausea, anche se nel loro caso vale il proverbio che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Dal loro punto di vista, insegnare ai bambini ad amare la Patria e a lodare il valore dei soldati, era cosa buona e giusta, ma dal nostro punto di vista, noi che siamo i loro posteri e che ci premuriamo di esprimere l’ardua sentenza, è stato un obbrobrio, un errore madornale, un suicidio collettivo, un plagio esecrabile, un’operazione becera e feroce.
La mia ardua sentenza sull’operato degli insegnanti è di totale condanna e richiede la massima punizione. Soprattutto in considerazione del fatto che gli strascichi di tale truffa storica si manifestano tuttora nella nostra società, che è tutto fuorché cristiana. E’ tutto fuorché pacifica. E’ tutto fuorché rispettosa del prossimo, dei popoli confinanti e degli stranieri che vengono a cercare lavoro da noi.
La mentalità rispettosa delle autorità, inculcata a migliaia di bambini nel ventesimo secolo sta portando non solo l’Italia allo sfascio, quell’Italia per cui sono morti milioni di soldati e di civili, ma la nostra intera specie verso l’estinzione, dal momento che è grazie alla sudditanza verso le istituzioni che siamo stati indotti a votare delinquenti, ladri e bugiardi. E noi li abbiamo votati con la stessa lieta rassegnazione di quando da bambini accettavamo i compiti e tutte le fregnacce che le maestre ci raccontavano. Andiamo a votare con lo stesso ottuso convincimento dei Balilla e delle Giovani Italiane che il Duce fosse un semidio e che i nostri soldati andassero a combattere per fare più grande la Patria. Oggi, a noi, ai nostri padri e ai nostri nonni, hanno insegnato che le istituzioni servano per il nostro bene, che la democrazia sia la migliore forma di governo e che siamo in Afghanistan per portare pace e democrazia a quei poveri pecorai. E’ lo stesso meccanismo.
E’ sempre la stessa regia dietro tutto ciò. Sono sempre quei maledetti massoni, sedicenti Illuminati, che fomentano l’odio fra i popoli, che scatenano guerre, rivoluzioni e crisi economiche, che c’inebetiscono con retorica infantile adatta alle nostre menti infantili, funzionale ai loro interessi e all’incremento dei fatturati delle loro industrie armiero-petrolifere.
Ovviamente, quella ristretta élite imperialistica sovranazionale non potrebbe raggiungere i propri obiettivi se non trovasse una moltitudine di arrendevoli collaboratori ed entusiasti carnefici, che li servisse devotamente. Un esercito di soldati, funzionari, insegnanti, sacerdoti e lacché di vario genere. Mi dispiace che anche i miei nonni materni abbiano dato il loro contributo, pensando di fare la cosa giusta e senza la possibilità di vedere il quadro generale. Avrebbero dovuto elevarsi su un livello superiore per osservare gli avvenimenti con occhio critico, da un punto di vista neutrale, ma non potevano farlo, essendo inseriti in un preciso contesto sociale. Ed è esattamente ciò che sta accadendo oggi alla maggioranza delle persone: non si accorgono di essere manipolate e che, come diceva Gian Maria Volonté in “Uomini contro”, il vero nemico è alle nostre spalle. Sono i nostri “superiori”. Il Ventennio Fascista non è mai finito. Ha solo cambiato nome e tutto è rimasto gattopardianamente come prima.
Bibliografia:

Sergio Salvi, “Le lingue tagliate”. Rizzoli, 1975
Antonio Bellina, “Une scuele pai furlans”. Glesie Furlane, 2007
Antonio Bellina, “Struture e/o culture”. Opera Omnia, 2010
“Vivere dentro una scuola d’altri tempi”, a cura di Guido Sut. Kappavu edizioni, 1998

6 commenti:

  1. Purtroppo anche le brave persone sono spesso vittime di una "retorica infantile", come la definisci tu in modo molto acconcio, ma efficace. Penso a mio nonno che, combattente durante la Grande guerra, sul fronte italo-austriaco (maledetti interventisti!), dove patì la fame, il freddo ed i pidocchi, era orgoglioso di essersi "sacrificato per la patria". Ero piccolo, quando ascoltavo il racconto delle sue eroiche gesta da coscritto in trincea. Mi additava pure compiaciuto le medaglie e tutto il bric à brac marziale. Mi permeava uno strano disagio, un indefinibile fastidio per qualcosa che non capivo e di cui oscuramente intuivo il carattere aberrante.

    Saranno mai smascherati questi carnefici che uccidono con l'ipocrisia più che con le armi?

    Eccellente articolo.

    Ciao

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  2. Grazie Zret! Sempre prodigo di elogi: mi farai venire il diabete. :-)
    Anni fa ho accompagnato un amico di Vigevano in cima al Pal Piccolo, vicino Tarvisio e, giunti sulla vetta, rovistando fra la neve, estrasse un pezzo di filo spinato vecchio di novant'anni, da conservare come reliquia. Anche lui, da bambino, seduto sulle ginocchia del nonno, ascoltava in.....religioso silenzio i racconti di guerra svoltisi proprio su quella montagna.
    Lui però, a differenza di te, non percepiva alcuna aberrazione in quei racconti di carneficine. E come lui migliaia di altri giovani si sono lasciati ammaliare da quella luciferina retorica.
    E i risultati si vedono. Ora.

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  3. Qui si sfonda una porta aperta.... Pre Toni, che tu conosci bene (parroco friulano che ha tradotto la Bibbia in lingua friulana- non dialetto, please- ) raccontava la vicenda di un missionario che si lamentava dell'ignoranza degli indigeni che seguiva, adducendo il fatto che per comunicare con loro doveva farsi aiutare da un'interprete, in quanto, gli ignoranti, non capivano la sua lingua. Pre Toni gli rispose, visto le sue battaglie per la dignità del popolo friulano- ben lungi dai proclami retorici leghisti, che l'ignorante era lui che non sapeva parlare la lingua della cultura che lo ospitava. Credo che un gesuita, che per quanto se ne dica di cultura ne sappiano, non avrebbe commesso una simile sciocchezza (Matteo Ricci docet in Cina). Così coloro che insegnavano erano incapaci di educare, perchè "segnavano" incidevano nell'anima di quela gente, perché così diceva l'ideologia di allora. Oggi non cambia molto, perché il danno è fatto e anche perché i "programmi ministeriali" sono ancora "IL VERBO". Così i bambino continuano ad andare a visitare le basi delle Frecce Tricolori e a restare estasiati davanti ai caccia impiegati in Iraq, accompagnati dall'acriticità dei loro insegnanti, e dal silenzio dei parroci locali (quasi tutti e quelli che aprono bocca sono beatamente ostricizzati). Friuli: aplini, vino e Frecce. NOn per me, e questo porta ad un risutato: NON tutto il Friuli. Qualcuno ancora dice no! mandi a ducj!

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  4. Due considerazioni, caro Sbilfo Baggins: che il friulano sia lingua o dialetto poco cambia. Una lingua è tale se parlata da milioni di persone; è dialetto se parlata solo da migliaia. Poiché quelli che parlano friulano sono sempre di meno, automaticamente è già diventata un dialetto. Ma c'è ancora speranza: quando non ci sarà più nessuno a parlarla, allora riacquisterà la dignità di lingua. Sarà una lingua morta, come la lingua latina.
    Triste ma vero!
    Seconda considerazione: quelle stesse maestre che non battono ciglia quando si tratta di portare i bambini in visita alla base di Rivolto, sono le stesse che votano la gita al parco zoo di Lignano: stessa indifferenza e insensibilità. Domanda focale: chi educherà gli educatori?
    Mandi e grassie.

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  5. Devo fare una precisazione. La definizione di lingua in base al numero è uno "strumento" politico (di potere), non tecnico. La lingua viene considerata, dagli esperti, in base a dei parametri, come ad esempio l'originalità lessicale, grammaticale e di struttura. G.A. Ascoli docet. Il friulano è una lingua, pur se parlata da poche persone (ciò non le toglie tale dignità), cosa che non avviene per il veneto, più blasonato dalla storia, perché ha parentele strette con i dialetti padani che hanno delle caratteristiche comuni, ergo: non sono "originali", quindi per quanto "potenti" non sono lingue. Noi piccolini e cjavestîs... sì.
    Mandi

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  6. Ti ringrazio Sbilff. E' senz'altro come dici tu, ma a livello pratico non se ne accorge nessuno. Era meglio se stavamo con l'Austria.
    Mandi.

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