martedì 10 aprile 2012

L’ombra di Lombroso




“Il criminale è un essere atavistico che riproduce sulla propria persona i feroci istinti dell'umanità primitiva e degli animali inferiori
Cesare Lombroso


Nella seconda metà dell’Ottocento imperava il Positivismo. Anche se L’uomo delinquente fu pubblicato nel 1876, la teoria dell’Atavismo fu formulata da Cesare Lombroso un anno prima della pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin, che è del 1859.
Si respirava l’aria di quello che sarebbe stato chiamato darvinismo sociale, in cui gli scienziati erano chiamati a trovare le giustificazioni tecniche e razionali delle disuguaglianze sociali. Lombroso fece la sua parte ricercando sulla struttura cranica di pazzi e delinquenti le caratteristiche che li distinguevano dai bravi, onesti e sani cittadini timorosi di leggi e autorità.
Riuscì in questa impresa, o si convinse di averlo fatto, studiando il cranio di Giuseppe Villella, che fu solo il primo di una lunga serie e che era uno dei tanti “briganti” meridionali uccisi dai militari sabaudi negli anni dell’unificazione d’Italia, conclusasi, ma non per il Triveneto, nel 1861.
Beffardamente, dopo la sua morte avvenuta nel 1909, per venire incontro alle sue stesse ultime volontà, il suo cranio fu analizzato autopticamente dai suoi collaboratori e, in base ai parametri messi a punto da Lombroso, avrebbe dovuto essere classificato come affetto da “cretinismo perpetuo”. Qualcosa evidentemente non quadrava e i suoi seguaci cominciarono a sospettarlo. Oggi le teorie di Cesare Lombroso sono considerate pseudoscientifiche. Sorvolerò sul particolare che Lombroso era ebreo e riporterò qui la testimonianza di una donna che in giovane età fece parte della Mala e lascerò ai lettori il compito di confrontare la sua storia con le teorie ottocentesche sulla genesi del comportamento criminale.

G. A., di chiare origini sarde, nasce a Monza il 4 febbraio 1961. In tenera età fu accompagnata dal padre in stazione a

Milano e affidata ad un bigliettaio del treno in partenza, che l’avrebbe fatta scendere ad Alassio e data in consegna ad una collaboratrice della colonia marina dov’era diretta. Salutandosi tra le lacrime, quella fu l’ultima volta che la bambina vide suo padre e per qualche sua strana dote paranormale, la piccola lo sapeva.
La madre, rimasta vedova, incontrò un uomo di nome Felice che la sottrasse dalla situazione di miseria in cui era precipitata e che l’aveva costretta a mettere G. nel collegio delle “Stelline” e il fratello in quello dei “Martinitt”. All’età di dieci anni G. viene tolta dall’orfanotrofio ma il nuovo “papà” dimostra ben presto di comportarsi con la bambina in un modo poco paterno.
G., quasi abbandonata a se stessa, verso i 12 anni aveva cominciato a frequentare quelle che la Bibbia chiama cattive compagnie e fu a quell’età che rubò la sua prima macchina insieme al fratello quattordicenne. La fine delle violenze da parte del patrigno venne in maniera inaspettata. A conferma del principio in base al quale “dal letame nascono i fiori”, la dodicenne una
sera incontrò Renato Vallanzasca mentre faceva benzina ad un distributore. Bastarono pochi scambi di battute e la bambina entrò nelle simpatie del boss della Comasina, un quartiere di Milano in cui anch’io ho vissuto per un breve periodo, senza peraltro entrare a far parte di alcuna banda. A meno che non si consideri tale quella dell’Animal Liberation Front.
Graziella divenne la mascotte, come succede presso certe bande, confraternite e gruppi chiusi e come si può vedere nel film This is England , che ha per protagonisti alcuni skin-heads degli anni Ottanta.
Una volta entrata sotto l’ala protettiva di Vallanzasca, subito la bambina si confidò con il suo protettore, che mandò una squadretta dei suoi a “parlare” con il patrigno violento. Quella sera, di ritorno dal lavoro, Felice non dev’essere stato troppo felice d’essere trascinato nelle cantine del palazzo e convinto pesantemente a desistere dai suoi insani propositi.
Fatto sta che per Graziella l’incubo finì, dopo due anni, non per merito di sua madre ma per l’intervento di una banda dedita al crimine. All’interno della quale, seppure come beniamina, Vallanzasca non ce la voleva neanche. Infatti, all’inizio, frequentando lo stesso bar, il bel René le diceva: “Ti do 10.000 lire se ti tieni lontana da noi e non vieni più qui con la tua amica”.
Al che la ragazzina rispondeva sfacciatamente: “Io mi prendo le 10.000 lire e faccio quello che voglio!”.
Dev’esser stato grazie a questo atteggiamento di sfida verso il già conclamato boss che G. si accattivò le sue simpatie e Vallanzasca permise il suo ingresso nel gruppo. In quegli anni, di riffa o di raffa, la bambina si ritrovava sempre un bel po’ di denaro in tasca, che diligentemente portava alla mamma. Com’è nello stereotipo della madre poco responsabile, costei prendeva i soldi senza indagare troppo.
Ad un certo punto, G. conobbe un ragazzo di nome Sandro, esterno alla banda, che di mestiere faceva l’addestratore di cani. Poiché normalmente animalisti si nasce – e G. modestamente lo nacque – fu subito amore a prima vista, non si è mai capito se per il cane o per il ragazzo che lo accompagnava.
G., tredicenne, portava a spasso i cani di Sandro davanti alle banche, guardava in giro e poi riferiva i particolari, posizione delle telecamere e tutto il resto, cioè faceva quelli che noi di A.L.F. chiamavamo sopralluoghi. Una bambina con un cane non desta alcun sospetto.
La ragazzina non ha mai partecipato in prima persona alle rapine in banca, ma le informazioni da lei riportate erano molto utili ai membri della banda, quando successivamente andavano allo “sgobbo”. Quando G. aveva 14 anni, con il fidanzatino poco più vecchio, lui avrebbe voluto conoscerla intimamente ma lei era restia e la si può anche capire.
Poiché Sandro insisteva, la ragazza chiese di nuovo aiuto a Vallanzasca, che conosceva solo un modo per far cessare abusi o presunti tali: le minacce. Fu così che, anche se Sandro non subì gravi conseguenze, il rapporto tra i due finì, ma non la passione per i cani e gli animali in genere.
All’età di 17 anni G. si sposò con un membro di una banda veneta, che l’aveva messa incinta, dopo aver ottenuto il permesso da parte del tribunale dei minori di Venezia. Dopo di che, considerato che a volte, per un appartenente alla Mala, è consigliabile cambiare aria, il novello marito andò in Germania, dove aveva già da prima un’amante, e la novella sposa-bambina lo raggiunse in seguito.
Così come stavano le cose, con il marito che ha già l’amante pronta, si può capire che il matrimonio sarebbe stato burrascoso, ma si capisce anche che le donne sono spesso propense a perdonare tutto - o quasi - ai loro mariti. Tanto è vero che in trentatré anni di matrimonio, G. e suo marito hanno divorziato due volte e si sono rimessi insieme altrettante.
Allontanandosi da Milano e lasciando al suo destino il bel René, G. non subì più le cattive compagnie, benché dotate anch’esse di regole morali, e si trasformò in operaia modello presso la Siemens, ovvero accettò il destino di milioni di altri schiavoratori sparsi per il mondo. Se non l’avesse fatto, crescendo nel contesto milanese, avrebbe prima o poi abbandonato il suo ruolo di mascotte e sarebbe finita in prigione. O sotto terra, perché in quel genere di vita succede anche quello.
All’età di 51 anni, oggi G. A. vive a Norimberga, circondata da molti animaletti e da un marito fedifrago che non ama più
da anni e sogna di evadere dalla situazione in cui si trova. Sognare di evadere lo facciamo un po’ tutti, permanentemente o a tratti, e questo fa venire il sospetto che non esistono solo le prigioni fisiche ma anche quelle mentali. O peggio, che l’intero pianeta Terra è una prigione, una colonia penale in cui alieni ostili e un tantino sadici ci tengono relegati.
G. oggi sogna l’Africa, come faceva Kuki Gallmann, solo che tra le due quest’ultima è riuscita a realizzare il sogno, avendo disponibilità finanziarie per farlo, mentre G. è ancora lì che sta sognando, in quelle fredde lande teutoniche.
Dalla sua biografia, però, si capisce che G. è una tipa determinata, il carattere forte ce l’ha, e non è detto che prima o poi non vada a posare un fiore sulla tomba della leonessa Elsa, in arte Nata Libera, e magari potrebbe anche darsi che le due donne, l’aristocratica Kuki e la proletaria G., si conoscano, in quella magica nazione chiamata Kenya.
Quanto al nostro buon Lombroso, che amava bere lambrusco a Vallombrosa, avrebbe fatto meglio a studiare economia sociale e non fisiognomica giudiziaria. Forse a quest’ora avevamo tutti il reddito di cittadinanza, le carceri sarebbero vuote e nessun criminale verrebbe sottoposto ad autopsia per trovare conferme a teorie inesistenti.
Una curiosità: cosa si troverebbe nel cranio di quel bell’uomo di Renato Vallanzasca?

2 commenti:

  1. Sebbene la storia mi ha commosso, il finale mi ha risollevato. Ottimo articolo che porta alla luce delle verità che nessuno sarebbe mai andato a scavare. Questo è "giornalismo": informare. Grazie.

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