sabato 21 aprile 2012

La nostra corrida quotidiana


Il toro ovviamente siamo noi, per una specie di nemesi; il torero è il cancro che spesso, quasi sempre, ci uccide e l’arena è il mondo intero, con tutte le sue tribolazioni. Poiché niente è come sembra e il bispensiero orwelliano è già in atto da tempo, coloro che si presentano come cura sono in realtà il male e rientrano nella categoria delle tribolazioni al pari di tutto ciò che intacca la nostra salute. In altri termini, l’apparato medico-ospedaliero è equiparabile all’inquinamento, alle radiazioni elettromagnetiche, allo stress e a tutto quello che di nocivo può esistere sulla faccia della Terra, anche se i diretti interessati sono convinti del contrario.
Come i picadores lavorano il toro prima dell’entrata in scena del torero, così le cause della malattia lavorano i nostri corpi prima dell’entrata in scena del cancro, in questa arena delimitata dalle nostre esistenze spazio temporali. Ci sono fortunate eccezioni, naturalmente, e quanto detto fin qui è solo la mia pessimistica opinione.
Di tenore totalmente diverso è l’opinione della persona che vado a presentarvi, un’energica, informatissima e simpatica infermiera trentaseienne, moglie di quel signore che ho intervistato il 12 marzo scorso e che grazie alla determinazione della sua compagna ha potuto sfuggire alla stretta finale della chemio e della radioterapia.


Katia Lorenzon, dopo aver conseguito il diploma tecnico dei servizi sociali, ha studiato altri tre anni per diventare infermiera. E’ 

madre di due bei bambini e, come vedremo in seguito, considera molto importante una visione corretta della vita e una sana integrazione ambientale, se si vuole star bene in salute. Ritiene che non vada dimenticata l’importanza di ritagliarsi uno spazio di relax in casa propria, magari coltivando un hobby, facendo passeggiate, evitando il bombardamento delle brutte notizie dei telegiornali, che creano acidosi, eliminando, se possibile, anche alcol, cibi fritti e alimenti elaborati chimicamente.

Una ricetta semplice, propugnata da molto tempo e da molti soggetti di cultura alternativa, ma che evidentemente non è di facile realizzazione. Katia però si è posta queste regole di vita come obiettivo, ma la sua vita non è sempre stata facile. Escludendo il contatto giornaliero con le miserie umane, dovuto alla sua professione e tralasciando la dura lotta che dovette combattere per salvare quello che all’epoca era il suo fidanzato, Katia si è trovata a dover seguire gli ultimi giorni di vita di suo padre, morto di tumore al polmone. Le cose andarono così.

Suo padre, fumatore, aveva sessant’anni quando cominciò ad accusare formicolii e stanchezza generale, fino al punto di non riuscire a stare in piedi. Dieci anni prima era stato operato di tumore alla prostata, operazione che forse non serviva ma che comunque lo rese impotente, causandogli un forte trauma psicologico. Dieci anni più tardi, poiché la tosse e la parestesia non davano segno di cessare, fu sottoposto ai raggi X ai polmoni. Quello sinistro era completamente opacizzato, cioè non funzionante. 

Fu iniziato un ciclo di antibiotici e ben presto si ebbe un calo ponderale, con perdita di dieci chili di peso. I medici suggerirono la chemio ma Katia, essendo del mestiere e sapendo che un intero polmone sarebbe stato bersagliato con distacco di brandelli di tessuto, si opponeva. Suo fratello invece fu d’accordo e la chemio ebbe inizio.

Come c’era da aspettarselo, emboli si staccarono dal polmone sinistro e passarono nel destro, riducendo ancora di più la capacità respiratoria e obbligando l’uomo a respirare grazie ad una mascherina, che gli fu compagna negli ultimi tre mesi di vita. Durante quel periodo, passato più in ospedale che a casa, si formava liquido fisiologico tra i due foglietti pleurici, ma i medici, anziché drenarlo con delle cannule o mediante la toracentesi, decisero di effettuare il talcaggio, cioè, quasi come si trattasse di riempire le intercapedini di una casa pericolante, iniettarono talco tra le due membrane della pleura, così da cementificarle e impedire al tumore di espandersi.
Il signor Lorenzon, a partire da quel momento, cominciò a soffrire dolori lancinanti e si pentì di aver dato il suo consenso al talcaggio, ma ormai era troppo tardi. Si vede, anche in questo caso, che i medici non sembrano interessati al benessere del paziente, ma alla buona riuscita delle loro manipolazioni. La sofferenza – degli altri - la danno per scontata.
Katia, che oltre ad essere infermiera era anche la figlia del paziente, decise di dare a suo padre una “terminalità decente”, che in altre parole significava farlo soffrire il meno possibile. La situazione ormai era disperata, ma Katia, un mercoledì del gennaio 2007, telefonò al dottor Tullio Simoncini, che partì da Roma il sabato seguente e arrivò a Codroipo verso mezzogiorno. Si fermò un paio d’ore in tutto per ripartire verso la capitale il giorno stesso. Una bella sgroppata!
Per prima cosa il dottor Simoncini volle esaminare le carte del paziente. Poi siccome i cateteri che raggiungevano i polmoni erano stati rimossi non si poté iniettare il bicarbonato direttamente sull’organo colpito e si dovette optare per l’infusione in vena. Il trattamento fu somministrato in tre cicli di cinque giorni ciascuno, intervallati da pause, per una spesa totale di venti euro. Se lo confrontiamo con i trattamenti chemioterapici del costo di 20.000 euro, come minimo ci facciamo un’idea del perché le cure alternative siano tanto osteggiate e i medici “eretici” siano demonizzati e sottoposti ad ostracismo dalla classe accademica.

Le flebo di bicarbonato, collegate al braccio, venivano da Katia riscaldate prima della somministrazione fino alla temperatura 

corporea e le sedute duravano al massimo tre quarti d’ora. Come reazione l’uomo accusò nausea e febbre, ma sentì anche un certo giovamento e se si pensa che non prese mai morfina, si può dire che Katia abbia raggiunto lo scopo di dare al padre una terminalità decente. Simoncini ebbe 600 euro di mercede e, prima di ripartire, disse alla ragazza: “Chiamami pure ogni giorno”. Il signor Lorenzon morì due mesi dopo. Poiché il talco aveva agito come un silicone sigillante, il bicarbonato ebbe difficoltà a raggiungere l’organo bersaglio. Forse, senza questo ostacolo, le cose sarebbero andate diversamente.

Avendole chiesto una sua opinione generale, da addetto ai lavori, sulla situazione della sanità nel mondo occidentale, Katia ha ammesso che la causa di tutti i mali è il vile denaro, che spinge le industrie a mettere al primo posto il guadagno e al secondo la salute delle persone. Io, da pessimista, penso che per BigPharma la salute delle persone non sia al secondo, ma all’ultimo posto, anzi nemmeno a quello.
Tuttavia, potrei essere d’accordo con lei quando dice che a cercare lo sporco in casa d’altri sono capaci tutti e i fautori delle cure alternative si focalizzano troppo sulla chemio e le altre brutture della medicina classica, dimenticando che esistono anche stuoli di medici bravi e coscienziosi, che non vanno condannati in blocco ma semmai valorizzati.
Io, da antivivisezionista, direi che la prima bruttura è proprio la tortura inflitta a creature innocenti, cosa che crea come una maledizione su tutto il resto, tutto ciò che ne segue. I sacrifici animali un tempo praticati in pubblico sulle are dei templi pagani, si fanno ora al chiuso dei laboratori, per pochi sadici buongustai, sacerdoti altrettanto pagani della dea scienza.
Ciò non di meno, condivido l’idea che ci siano tanti bravi medici, che agiscono secondo scienza e coscienza. Il sogno di Katia è quello di formare scuole di naturopatia in cui le diverse discipline mediche collaborino insieme, senza darsi battaglia l’un l’altra. Posta di fronte all’obiezione che le industrie farmaceutiche, con il loro immenso potere, non ci sentono da quell’orecchio e che in Hamer, Di Bella, Gerson e Simoncini vedranno sempre dei pericolosi sovversivi, Katia dice che lei va avanti per la sua strada, perseguendo il suo obiettivo.

Che è quello di fornire alle persone le chiavi di lettura per raggiungere la consapevolezza del Sé, affinché la scienza medica torni a curare l’individuo nella sua totalità e non solo il corpo fisico dei pazienti, sulla base di presunti meccanismi di causa ed effetto. Ovvero di instaurare nella società, a tutti i livelli, una visione olistica delle cose. E su questo penso che siamo tutti d’accordo.

Purtroppo, anche Katia si rende conto che se a un normale medico si fanno discorsi di questo tipo, sulla necessità per esempio di fare dell’Amore la caratteristica preponderante della vita delle persone, si mette a ridere. E io m’immagino che un tale medico replicherebbe parlando di “real politik”, cioè della necessità di restare con i piedi per terra e di lasciare a santoni, guaritori e ciarlatani vari il compito di predicare l’amore.
Giacché non è con l’amore che la società va avanti e senza denari non canta un cieco, come dice il proverbio. A questo punto, consci, come in pochi siamo di esserlo, del fatto che la ragione è dalla nostra parte, che le intuizioni di Hamer e la terapia di Simoncini si completano a vicenda, di fronte allo scetticismo e all’opportunismo del Leviatano medico-ospedaliero, non ci resta che sperare che quel famoso salto quantico di cui si parla porti quei cambiamenti che stiamo aspettando. La morte e il suo pungiglione non saranno sconfitti, ma nelle nostre vite il benessere generato dall’Amore potrebbe, penso, fare miracoli.
La nostra decadente società attuale ne avrebbe estremo bisogno. Così il mondo, forse, cesserebbe di essere un’orribile arena sanguinaria.

6 commenti:

  1. Risposte
    1. Grazie. E' solo da un paio di mesi che faccio interviste e l'articolo è interessante forse perché la gente in genere è interessante.
      Tu, infatti, sei interessantissima!
      :-)

      Elimina