Fonte: Left
Italiani
brava gente è
un’espressione che non usano solo gli italiani. Anche
mia nonna la usava, per dire che si trattava di gente sapiente, dalla
lunga civiltà. Intorno
ai dieci anni, però, ho scoperto che gli italiani, appena arrivati
in Eritrea, avevano espropriato i nostri terreni e
che la mia famiglia era stata ridotta alla povertà», racconta la
scrittrice Ribka Sibhatu, che abbiamo incontrato a Roma al
Convegno dell’associazione Amore e Pische Diversità
nell’uguaglianza e che abbiamo ritrovato con i suoi libri
di fiabe e racconti al Salone del libro di Torino allo stand
dell’editore Sinnos. Il colonialismo italiano in Eritrea è
un buco nero nella nostra memoria. Ma non in quella di chi l’ha
subito. «Ben presto, non solo ho
scoperto le leggi razziali, che ci giudicavano inferiori e
ci impedivano di frequentare il centro di Asmara. Allora, sconvolta,
chiesi a mia nonna come mai amasse tanto gli italiani. E lei mi
rispose: Figliola, stai attenta: non
confondere gli italiani e la cultura italiana con la politica
italiana. La
politica è una cosa; gli italiani sono un’altra cosa. La penso
così anch’io tanto che dovendo scegliere fra l’Inghilterra e
l’Italia ho deciso di venire qui».
La
realtà del colonialismo però era ben diversa.
I
nostri colonizzatori sono stati uno peggiore dell’altro. C’è un
detto eritreo che lo riassumebene: “Gli italiani ci dicevano
mangiate e non parlate; gli inglesi, parlate e non mangiate; gli
etiopi, non mangiate e non parlate”. La cosa grave del colonialismo
italiano è l’eredità che ci ha lasciato: l’ignoranza. Per 60
anni ci è stata proibita l’istruzione. E questo nel ’41,
nonostante l’Italia avesse investito parecchio in Eritrea e
l’Eritrea fosse uno dei Paesi più sviluppati dell’Africa
subsahariana. Poi ci hanno federato e l’Italia ci ha tradito,
consegnandoci all’Etiopia. Ne sono seguiti 30 anni di guerra. E
adesso dove siamo? Al processo di Khartoum, con il quale l’Italia
ci ha tradito ancora una volta, rafforzando la dittatura più feroce
del mondo, che ci sta letteralmente sterminando.
Qual
è la situazione oggi sotto il presidente padrone Isaias Afewerki?
La
peggiore possibile. Nel 2016 per l’ottavo anno consecutivo
l’Eritrea è all’ultimo posto nella classifica di Reporters sans
Frontières e Freedom House sulla libertà di stampa, occupando il
180° posto e venendo definita “una dittatura dove l’informazione
non ha alcun diritto”. Dopo il processo di Khartoum, proseguito a
Roma e a Malta, Isaias Afewerki si è sentito protetto peggiorando la
schiavitù. Forse non tutti sanno che in Eritrea vige una schiavitù
mascherata sotto forma di servizio militare. Un anno prima di finire
le scuole superiori i giovani vengono portati nei campi militari,
dove vivono con una paga di 10 euro al mese che non basta neanche
alla loro sussistenza. Prima del processo di Khartoum il limite di
età per il servizio militare era 50 anni, ora è stato portato a 70
anni. Tutta la vita a 10 euro al mese, affamati e schiavi, privati
del diritto di parlare. È per evitare la leva obbligatoria che molti
ragazzini stanno arrivando in Europa. Il Paese si sta letteralmente
svuotando. Eravamo 5 milioni, adesso non so neanche se siamo 3
milioni.
E
l’Europa, l’Italia, cosa fanno?
Invece
di aiutare noi dissidenti, rafforzano una dittatura terribile,
creando in Eritrea i germogli per una futura Siria dove crescono le
vittime dell’Isis. Possiamo immaginare cosa può succedere a un
popolo offeso, privato della propria cultura senza consapevolezza
della propria storia.
Come
se ne può uscire?
Con
l’educazione, con la storia. Dobbiamo investire nella pace, nel
futuro, perché siamo tutti sulla stessa barca. Quando sono arrivata
in Italia, 30 anni fa, tanti vecchietti mi cantavano “Faccetta
nera”, pensando di essersi comportati bene in Eritrea. Oggi i
giovani non sanno neanche dove si trovi l’Eritrea. L’ignoranza
della propria storia è la cosa peggiore che può succedere, perché
ti fa perdere l’orientamento verso il futuro.
Lei
è stata in carcere e poi è stata costretta all’esilio. Qual è la
sua vicenda personale?
Sono
stata in carcere durante il regime di Menghistu Hailè Mariàm, prima
dell’arrivo di Isaias Afewerki. La mia unica colpa è stata quella
di aver rifiutato di sposare un generale che mi voleva in moglie. Il
governo però mi ha accusata di essere una spia di quei guerriglieri
che ora sono al potere. Ovviamente non c’entravo nulla con le
accuse che mi erano state mosse, anche il mio aguzzino se ne accorse
già il primo giorno. Fortunatamente, io parlavo perfettamente
l’amarico, che è la lingua dei colonizzatori etiopi, perché sono
vissuta in un ambiente interculturale fra etiopi, cristiani e
musulmani. Perciò ebbi modo di spiegarmi. Sono stata fortunata,
perché, le altre donne arrestate con me hanno subito violenze per
mesi. Alle donne ferivano le piante dei piedi e le costringevano a
camminare nella ghiaia con i piedi sanguinanti. Molte svenivano per
il dolore. Mentre tornavo in cella dalla sala delle torture, per il
dolore delle percosse alla schiena mi sono accasciata e ho sentito il
mio torturatore dire ai suoi colleghi che ero innocente, come se il
mio esame fosse finito. Poi cercarono di arruolarmi come infiltrata e
volevano inviarmi in Russia. Temendo ritorsioni per il mio “no”,
decisi di fuggire dal Paese.
Quando
ha trovato “la propria voce” come scrittrice?
Durante
la mia fuga dall’Eritrea portai con me quattro libri. Uno era Il
diario di Anna Frank.
Mi colpì il fatto di vivere nascosta come lei. Mi sentii meno sola.
“Ma come, i morti parlano con i vivi?” pensavo. Decisi così
di misurarmi con la scrittura.
L’Eritrea
ha una grande tradizione di narrazione orale, fiabesca e poetica, in
che modo ne ha tratto ispirazione?
Io
vengo da una famiglia agiata, di cosiddetti feudatari, nella quale
c’era un forte culto degli antenati. Quando ero bambina mia mamma
mi parlava del nostro albero genealogico, raccontandomi storie che
risalivano anche a 500 anni fa. In famiglia sono l’unica ad essere
rimasta folgorata da questa tradizione e sto cercando, da un lato, di
proseguire la mia ricerca e, dall’altro, di continuare a
trasmettere la nostra storia.
I
suoi libri sono pubblicati da Sinnos con testo a fronte, in italiano
e tigrino. La possibilità di avere un doppio sguardo in che modo
arricchisce la sua visione?
Ora
le due lingue convivono dentro di me in armonia. C’è stato
un periodo della mia vita in cui stavo per perdere il tigrino, perché
prevaleva l’italiano, poi l’ho recuperato e ora penso e sogno in
tutte e due le lingue. Dopo l’ultimo tradimento del processo
di Khartoum, mi sono sentita offesa e per un attimo ho pensato di
andare via e di rinunciare a scrivere in italiano, perché questi
politici stanno facendo soffrire di nuovo il mio popolo. Ci ho
riflettuto, parecchio, e mi sono resa conto che non siamo solo noi ad
essere danneggiati. Parlo l’italiano anche per denunciare la
violenza che il mio popolo sta subendo. Per aiutare gli
immigrati e i rifugiati a diventare sempre più risorsa, lavorando e
conoscendo i propri diritti e doveri. Anche per questo ho deciso di
accettare l’invito dei Radicali a candidarmi alle prossime elezioni
per la IX circoscrizione e per il Comune di Roma.
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