sabato 10 agosto 2013

Società Anonima Antenati

 
Giovedì 8 agosto ho incontrato uno dei miei affezionati lettori, Giovanni Zecchi. E’ venuto dalla lontana Firenze per passare qualche giorno a Lignano Sabbiadoro e, già che c’era, per incontrarmi. Insieme siamo andati prima a visitare l’Ipogeo Celtico di Cividale e poi le presunte tre piramidi di Rualis, frazione della medesima cittadina medievale. Sulla grotta scavata nella roccia in pieno centro a Cividale, visitata da migliaia di turisti ogni anno, che lasciano un’offerta al proprietario del Bar All’ipogeo come abbiamo fatto noi, non si sa nulla, ma anche delle tre ipotizzate piramidi di Rualis non si sa niente.
Dell’Ipogeo non si sa se è stato costruito dai Romani, dai Celti, dai Longobardi o da popolazioni ancora più antiche. Fatto sta che vi sono due mascheroni abbozzati, incastonati nelle pareti, di dimensioni diverse l’uno dall’altro. Vi sono alcune nicchie che probabilmente servivano per appoggiarvi il lume, ma anche una più lunga che avrebbe potuto contenere il cadavere di un defunto. Qualche principio di stalattite sulla volta. Pozze d’acqua in alcuni punti della pavimentazione. In tempi recenti dev’essere servita da cantina, ideale per la stagionatura di salumi e formaggi, vista la temperatura e l’appartenenza della grotta stessa a una dinastia di ristoratori.


 
Delle tre presunte piramidi si sa solo quello che il ricercatore indipendente Walter Maestra è riuscito a scoprire. E cioè che sono disposte secondo lo schema delle più famose piramidi di Giza, in allineamento con la costellazione di Orione, e che potrebbero essere di origine naturale, ma successivamente sottoposte a modellamento da genti antiche, appartenenti a quelle tuttora sconosciute che hanno costruito piramidi un po’ dappertutto.
Si parla di piramidi anche per la Brianza e la Sardegna, mentre quelle bosniache sono state riconosciute come autentiche – e non semplici colline. Ve ne sono in Cina e ovviamente in Sudamerica. 

A detta del mio amico Giovanni, i geologi dell’università di Udine ritengono che le tre colline di Rualis siano normali alture eoceniche, identiche a quelle che circondano l’abitato di Cividale e che danno ricetto alle valli del Natisone, con popolazioni di origine slava. Erroneamente qualcuno parla di “Slavia friulana”. E’ la patria della Gubana, per intenderci e vi ho pure abitato per qualche mese nel ’99, quando ero impiegato al Distretto Scolastico di Cividale. 
                                                                                                                                  
Abbiamo girato un po’, io e Giovanni, chiedendo ai villici, pur essendo la sua macchina dotata di navigatore. Una in particolare aveva l’aspetto conico da piramide, pur essendo completamente ricoperta di vegetazione. Le altre erano ammantate di vigneti e, infatti, la lavorazione a gradoni deve aver spinto Walter Maestra ad ipotizzare che in origine quel movimento terra fosse stato attuato per scopi diversi dalla coltivazione della vite. Ovvero, per scopi rituali. Si tratterebbe di vedere quando tale pianta d’origini mediterranee fu coltivata la prima volta su queste colline. Se i vitigni sono stati portati dai romani e i gradoni esistevano già da prima, allora qualche parte di verità il ricercatore indipendente può averla, ma se furono i romani stessi, magari legionari in pensione che ricevevano terreni agricoli come liquidazione, a farli costruire, le ipotesi del signor Maestra vengono meno.
La questione non è peregrina perché per la storiografia ufficiale furono gli egizi a costruire le piramidi di Giza, mentre noi sappiamo che invece le trovarono già fatte e ne presero possesso, essendo le cosiddette piramidi di Keope, Kefren e Micerino molto più antiche di quelle dinastie faraoniche. Ad avvalorare la tesi della manipolazione delle tre colline da parte umana, il ricercatore Maestra porta a testimonianza una muraglia fatta di grosse pietre incastonate, sullo stile di quelle megalitiche di Cuzco e di altre località. 

Le abbiamo trovate, alla fine, dopo aver girato un po’, presso l’ingresso dell’azienda agricola Domenis, ma, una volta arrivati sul posto abbiamo convenuto che si tratta di normale pietra arenaria, spaccatasi in modo geometrico così da trarre in inganno, come se si trattasse di pietre messe una sull’altra da mani umane.
Potrebbe essere il muro di sostegno laterale di una qualche stradina, se non fosse che non c’è nessuna stradina da nessuna parte, né l’altro lato corrispondente di un’eventuale capezzagna. Solo lievi alture e vigneti, con una decina di metri di lastre di arenaria in bella evidenza. Una fessurazione che corre quasi per intero da un capo all’altro presenta un andamento obliquo, segno che a produrla deve averci pensato un terremoto, uno dei tanti che nel corso dei secoli ha flagellato questo territorio.

Sembra che il signor Maestra abbia trovato da qualche parte anche una pietra scolpita in modo antropomorfo, ma in una zona diversa dal muraglione sedicente megalitico. Se è tutto qui, mi pare un po’ poco, poiché abbiamo solo una parete naturale di lastre arenarie che traggono in inganno, la faccia scolpita in un masso e le tre colline che saranno state anche lavorate, ma più probabilmente da antichi vignaioli, piuttosto che da seguaci del Dio Ra, discendenti di Atlantide. Quando onestamente non ci sono abbastanza prove, bisogna aver il coraggio di riconoscere i propri errori, cioè di aver lavorato troppo di fantasia. Non c’è disonore in questo. Anzi.
La pizza ai funghi porcini, in piazza Paolo Diacono, il salotto buono di Cividale, ha concluso la serata con l’amico toscano. Indi, ognuno è tornato a casetta sua. Giovanni all’hotel tre stelle Colorado, di Lignano.
                                                                                                                                                                
Il giorno dopo, portando la cagnetta a camminare al parco delle risorgive di Codroipo, ho notato macchine parcheggiate e persone indaffarate all’interno del campo ove esisteva anticamente un Castelliere. L’occasione di vedere all’opera archeologi è stata troppo ghiotta. Mi hanno ricevuto con gentilezza. Si trattava per lo più di giovani studenti e studentesse, ognuno all’opera con cazzuola e pennello, inginocchiati presso il proprio pezzo di terreno. C’erano anche almeno due dirigenti più anziani e lo si capiva dal fatto che usavano uno strano apparecchio di misurazione, simile a quello che i geometri usano sulle strade. A me ricorda l’attrezzo usato dagli agrimensori romani e probabilmente ne è l’evoluzione tecnologica, ma nel nostro caso è indubbiamente computerizzato.
Massimiliano, diplomato al liceo classico di Udine e iscritto alla facoltà di lettere antiche (dopo i primi tre anni potrà scegliere la specializzazione in archeologia) mi ha fatto da Cicerone. Tradiva una grande passione per la materia e lascia immaginare un radioso futuro come archeologo. Era un fiume in piena e a mala pena riuscivo a porgli delle domande. Sui reperti ritrovati nel Castelliere, uno dei tanti che si trovano nella pianura friulana e perfino sul Carso triestino, mi ha detto che al massimo si trovano frammenti di vasi e ossa d’animali, mescolati però a cocci d’origine romana, cioè di insediamenti di milizie S.P.Q.R. arrivate molto più tardi.

Il museo archeologico di Codroipo detiene qualcosa come 5.000 frammenti trovati in zona. Circa le ossa di animali, ho chiesto se quelle antiche popolazioni si davano parecchio da fare cacciando, visto che probabilmente il territorio era circondato da fitte foreste secolari. Al che, uno dei direttori degli scavi, ascoltando la nostra conversazione, è intervenuto dicendo che quelle popolazioni già conoscevano l’allevamento e quindi non dovevano darsi troppo da fare per cacciare. Forse, se lo facevano, era più che altro per assaporare carni diverse dalle solite.
La sicurezza con cui il professore è intervenuto (lo chiamo io così per comodità) mi ha dato l’impressione che le linee guida della storia ufficiale devono essere rispettate fin nei dettagli e che non c’è posto per divagazioni o teorie eretiche. Mi sono chiesto come avrebbe reagito, anzi come avrebbero reagito tutti loro, studenti compresi, se avessi accennato a Sitchin o a Biglino, con i loro rispettivi Anunnaki ed Elohim.
Siccome sono abituato a seguire certi autori, ho voluto tastare il terreno con la mia guida chiedendogli se aveva mai sentito palare del sito di Gobekli Tepe, per conoscere il suo background. Massimiliano non ne aveva mai sentito parlare, ma questo può dipendere dalla sua giovane età. Comunque sia, vi sono dei siti maledetti, invisi agli archeologi accademici perché scombussolano la dottrina ufficiale.
Non è il caso delle piramidi di Walter Maestra, per le quali mancano riscontri oggettivi, ma nel caso di Gobekli Tepe i manufatti e le sculture in esso ritrovate ci rimandano a una civiltà sconosciuta, che aspetta ancora di essere classificata e, soprattutto, ci rimanda indietro di 12.000 anni, troppi per l’archeologia ufficiale.
I libri di Graham Hancock e Robert Bauval hanno grande successo di pubblico, ma sono ritenuti spazzatura dal mondo accademico, probabilmente perché datano le piramidi di Giza, Sfinge compresa, a un’epoca non convenzionale, ad almeno 13.000 anni fa. Il che, se venisse preso in considerazione, sconvolgerebbe l’intera Storia come ci è stata raccontata. D’altra parte, non è una novità che la Storia e la Scienza sono congiure e tendono a coprire la verità, piuttosto che a rivelarla. 

                                                                                           
Tuttavia, io trovo ammirevole sia le ricerche del signor Maestra, sia la certosina pazienza dei ragazzi e delle ragazze impegnate a raschiare terriccio, sotto la supervisione dei loro insegnanti. I quali, al di là della “puzza sotto il naso”, che potrebbe portarli ad essere un po’ snob, mi hanno dato interessanti informazioni sulle genti dell’età del Bronzo che vivevano nei Castellieri. Per esempio, che le palizzate venivano erette più che altro per difendere se stessi e il bestiame dall’attacco di orsi e lupi, non tanto da quello di tribù vicine, con le quali magari era più facile instaurare rapporti di collaborazione che non di ostilità.
Poiché non hanno lasciato documentazione scritta, non si sa molto dei loro usi e costumi, ma si sa che nel 1300 avanti Cristo non ebbero contatti con i Celti, né tanto meno con gli eserciti romani, Massenzio in primis, che vennero molto dopo. Per questa ragione, se sappiamo che sono esistiti popoli chiamati celti è perché ne hanno parlato gli storici romani, ma, per la stessa ragione, non sappiamo come si chiamassero le tribù dell’età del Bronzo. I romani non ne sospettarono neanche l’esistenza.

                                                                   
Probabilmente, loro usavano un nome per riferirsi a se stessi, come mi ha detto uno dei professori, ma noi non sappiamo quale fosse. Non avevano una scrittura codificata, ma si limitavano a rozzi disegni, forse stilizzati come quelli delle grotte francesi e spagnole.
Sul momento, sapere che quei nostri antenati non hanno un nome ufficiale, mi ha lasciato un po’ sconcertato, perché un nome non si nega a nessuno. Ho chiesto se fossero Liguri o Veneti, come ci dicono i libri di testo, ma la risposta è stata negativa. Non lo sappiamo, semplicemente.
Poi ho chiesto se c’è stato qualche cataclisma che ha sterminato quelle popolazioni e uno dei due dirigenti mi ha risposto con un esempio: “Io non dico che mio nonno è estinto; dico che mio nonno è morto”. Vale a dire che, nel lento dipanarsi dei secoli, gli abitanti dei Castellieri sono scomparsi per lasciare il posto alle popolazioni nomadi celtiche provenienti dal nord Europa, ma questo non significa che gli invasori abbiano sterminato gli indigeni, bensì che abbiano convissuto pacificamente con essi, accoppiandosi e dando origine a razze ibride, fino a quando non sono arrivati i Romani, costruttori di Aquileia su un insediamento celtico, che hanno fatto la stessa cosa. Senza soluzione di continuità.
Solo nel caso in cui gli indigeni avessero dimostrato ostilità, diventava un problema di ordine pubblico e scattava la repressione, ma nella quasi totalità dei casi le tribù che s’incontravano per la prima volta cercavano di superare le difficoltà linguistiche e venivano a patti stringendo amicizia e rapporti socievoli.

Questo è quanto riesco a immaginare. Questo è quanto Massimiliano mi ha fatto capire. Questo è quanto mi pare si avvicini maggiormente alla verità storica. Avrei voluto fare ancora molte domande, sia al mio zelante accompagnatore, che ai suoi professori (io continuo a chiamarli così per comodità), ma non potevo approfittare troppo della loro pazienza, essendo pur sempre un non addetto ai lavori capitato lì per caso portando a spasso la cagnetta.
Ma un nome, a quei nostri selvaggi antenati, glielo si potrebbe anche dare, altrimenti è come dire: “Figlio di n.n.”. Non sta bene. Non è politicamente corretto. D’altra parte, anche agli Anunnaki si dà un nome che non corrisponde a come loro si chiamano e così pure agli Elohim. E perfino allo stesso YHWH, che non sappiamo neanche come veniva pronunciato realmente.
Vi prego, gentili archeologi, date un nome a quelle genti, ché tanto non si offendono. “Abitanti dei Castellieri” è troppo lungo. Anche Paleofriulani non mi sembra molto adatto. Non avete qualche idea? A me non viene in mente niente!

5 commenti:

  1. Grazie del resoconto Roberto! Che onore! :-) Ma sai che a me il dubbio comunque è rimasto...? Sarà per via della mia inclinazione a pensare sempre DIVERSAMENTE da quello che pensano gli accademici ufficialmente...? È un viziaccio, lo so...non mi è mai piaciuta l'obiettività, in questo mondo fisico-quantistico... g

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    1. Non sono un geologo e le lastre sembrano ben sistemate le une sulle altre, ma il mio istinto mi diceva che era un fenomeno naturale.

      Il tuo istinto cosa ti ha detto? Lasciandoti nel dubbio non ti è stato molto utile.

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    2. Beh...il mio istinto mi dice che un intervento umano lì c'è stato... Sono convinto che questi cosiddetti "Celti" nella loro architettura riutilizzassero ed inglobassero le strutture naturali... D'altronde anche l'Ipogeo ne è testimonianza... g

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    3. Secondo me la chiave di lettura dei terrazzamenti è quella agricola: i Celti si sono portati dietro la tecnica della coltivazione del luppolo, per farsi la birra?

      O il luppolo non cresce in Friuli per motivi climatici? E come mai non vi è traccia di tale pianta neanche nei resoconti degli storici?

      Forse i Celti non conoscevano il luppolo e hanno imparato dai Romani a coltivare la vite.


      Comunque sia, la domande finale è: hanno modellato le tre colline di Rualis per scopi rituali, cioè ad imitazione delle piramidi di Giza, o non sapevano neanche della loro esistenza?

      Ovvero, c'erano tra di loro "druidi" in qualche modo collegati con i sacerdoti dell'antico Egitto?

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    4. I Certi (che non sono cosidetti e senza virgolette) lo conoscevano benissimo il luppolo ed anche la vite (vice versa il vino), e questo ci dimostra ancora una volta che una dieta a base di carne rende un popolo più sano, forte e bello di altri!

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