lunedì 27 aprile 2015

Giustizia è quasi fatta!


Anni fa chiesi il casellario giudiziale nell'apposito ufficio della questura di Udine, cioè quel documento meglio conosciuto come “fedina penale”. C'era una donna matura che accoglieva le domande. Quando fui davanti a lei, si mise a farmi un'imbarazzante corte, a me, uno sconosciuto, esprimendo sfacciati commenti sul mio bell'aspetto, come per invogliarmi a chiederle un appuntamento. Ma quando poco dopo andai a ritirare la fedina penale piena zeppa di reati, cambiò totalmente atteggiamento nei miei confronti, dimostrando sprezzante disgusto verso un incallito pregiudicato quale io sono e fui. Evidentemente, si era lasciata ingannare dal mio aspetto mite e angelico, ma qualcosa di patologico di sicuro albergava in quella sua mente malata e solitaria. E' chiaro che con un approccio così, tutti gli uomini che ha incontrato nella sua vita scappavano.


Qualche anno dopo, andai nella caserma dei carabinieri di Viale Trieste, sempre a Udine, per ottenere il permesso di riavere indietro il Suzuki Samurai che mi era stato sequestrato. Per prima cosa, il piantone della guardiola, dopo aver telefonato ai piani superiori, mi fece fare una lunga anticamera. Poi, quando fui ammesso nell'ufficio dei dissequestri, c'era un carabiniere in borghese che continuò la vessazione iniziata dabbasso dimostrandomi tutto il suo disprezzo in modo piuttosto volgare: avendo ricevuto una telefonata al cellulare, si alzò in piedi e disse all'interlocutore che stava dissequestrando la macchina di uno di quei deficienti di animalisti e, mentre lo diceva, si prese “il pacco” con l'altra mano guardandomi negli occhi con un sorriso sarcastico, volendo così comunicare con due persone contemporaneamente. Al suo interlocutore stava spiegando cosa era intento a fare burocraticamente e a me che ero un “cazzone” come quello che in quel momento si stava afferrando. Naturalmente, non c'erano suoi colleghi nelle vicinanze e le botte date agli arrestati, di cui spesso ci parlano i giornali, non sono, evidentemente, l'unica forma di abuso compiuta dalle forze dell'ordine nelle patrie stazioni dei carabinieri.


L'altro ieri, recatomi nella caserma dei carabinieri di Codroipo, mi fu fatta fare una certa anticamera e mentre il milite, alla fine, con molta calma, mi consegnava il documento giunto dall'ufficio di sorveglianza di Udine, usò la parola “anticipo”. Al che gli chiesi cosa s'intendesse per anticipo.
Non ha fatto istanza? - mi chiese di rimando.
L'ha fatta il mio avvocato – risposi – ma non so cosa significhi “anticipo”.
Neanch'io – mi rispose sgarbatamente.
Ah, allora non sa darmi spiegazioni – commentai.


Capii a quel punto che mi stava manifestando il suo disprezzo e che non c'era un vero e proprio dialogo perché mancava l'ingrediente fondamentale: il rispetto reciproco. Poiché anche gli agenti delle forze dell'ordine sanno che la magistratura è troppo tenera con i delinquenti, ci mettono del loro, quando gli capita l'occasione, a far vedere i sorci verdi a chi, secondo il loro punto di vista, se lo merita. Insomma, dopo quasi dieci anni e un'infinità di processi, mi veniva anticipata la liberazione, condonando 45 giorni dal mese e 28 giorni che dovevo ancora dare alla Giustizia italiana. In questo senso, “anticipo” sta per liberazione anticipata. 

Mi chiedo, a questo punto, cosa mi verrà dato per i restanti 13 giorni: arresti domiciliari o affidamento in prova ai servizi sociali? Se io fossi nei panni del magistrato, non scomoderei le assistenti sociali solo per 13 giorni e liquiderei la faccenda, per il condannato, con gli arresti in casa sua. O anche in carcere, che non è poi molto differente, se non che in questo caso il condannato deve essere mantenuto dai contribuenti. Morale, provvisoria, della favola: a mettersi contro il Sistema, e in questo caso è il sistema che si basa sullo sfruttamento degli animali, si finisce per diventare reprobi, reietti, paria, borderline e banditi dalla società sedicente civile. Questo lo so da molti anni, ma pensavo che il mio decennale calvario di umiliazioni fosse finito. Mi ero illuso!


Facciamo un passo indietro e andiamo alla fine del 2005. Con un amico compii quelli che per la legge sono atti intimidatori, ma che per noi erano sabotaggi, nei confronti dei ristoranti “Al cacciatore”, come ce ne sono tanti in tutta Italia, ma contro uno in particolare che si trovava a Turrida di Sedegliano, di proprietà della famiglia Tomini. Lo visitammo tre volte, prima con scritte sulla facciata esterna, tipo: “Ristorante Allo Stupratore” e, da ultimo, con la copertura dei suoi cartelloni con vernice rossa e anche con il taglio della gomma dell'annessa pompa di benzina. Senza sospettarlo, fummo ripresi dalle telecamere esterne e questo contribuì al nostro arresto che si verificò dopo qualche settimana. La stessa notte dell'attacco al ristorante, bruciammo un camion per il trasporto bestiame nel cortile di una macelleria a Osoppo, di proprietà di Paolo Brollo, e tutte queste azioni, volendo fare le cose per bene, furono intervallate da nostre telefonate di rivendicazione e da lettere spedite anche ad altri ristoranti con la stessa insegna, sparsi per il Friuli. Nello stesso periodo, con lo stesso “complice”, bruciai un altro camion per il trasporto di bestiame che si trovava nel parcheggio di un'officina meccanica in comune di San Vito al Tagliamento. Eravamo a metà novembre del 2005 e in quel caso facemmo delle scritte che dicevano: “Vagoni piombati. Nazismo moderno. Animali liberi”. Su un muro della macelleria di Osoppo, invece, scrissi: “Macellai al macello. Animali liberi”. Era l'undici gennaio del 2006. Verso la fine dello stesso mese fummo arrestati, dopo aver compiuto un'azione ancora più eclatante, alla quale si erano aggiunti altri due attivisti provenienti dall'Emilia Romagna, mentre il “complice” con cui avevo agito fino a quel momento veniva dal Veneto. 
 
Attaccammo il salumificio Coletti di Ragogna, dando fuoco ai camion per il trasporto dei salumi parcheggiati in cortile. Quattro andarono completamente distrutti, mentre il quinto fu salvato dallo stesso titolare dell'azienda che era stato chiamato in piena notte dai vigili del fuoco. Il più giovane della “banda”, un 18enne che aveva l'incarico di fare scritte sui muri del salumificio, fu scarcerato subito proprio per questa ragione, per non aver preso parte al danneggiamento. Gli altri due uscirono dal carcere dopo 48 ore, non essendogli stato confermato l'arresto. A me, dopo due giorni nel carcere di Pordenone, furono dati gli arresti domiciliari nella mia baita di montagna, dove vivevo solo. In totale feci sei mesi di arresti in casa, ma solo dopo il quinto mese mi fu detto che avrei potuto usufruire di un permesso settimanale per andare giù in paese a fare la spesa. Non avendomelo detto, fu mio padre, con i mezzi pubblici o facendosi accompagnare da qualche amico, che veniva a portarmi il cibo e a volte anche la legna da ardere, visto che a 800 metri sul livello del mare in febbraio e marzo fa ancora freddo. Il giorno più bello fu quando mi portarono Snitzler, uno dei miei cagnetti, così da stemperare la cocente solitudine dei boschi. Inutile dire che dagli arresti domiciliari, a mio rischio e pericolo, evasi più di qualche volta e, per tenere fede al detto “Tira più un pelo di f.... che una pariglia di buoi”, le mie evasioni notturne, compiute dopo che i carabinieri erano passati a controllare che fossi in casa, erano dirette verso Rigolato, passando attraverso i boschi, per imbucare lettere per un'animalista trevisana, Silvia Meriggi, di cui ero, non corrisposto, innamorato.


Avevo ormai quasi concluso i sei mesi di arresti domiciliari, quando mi fu concesso l'indulto e la prima cosa che feci fu di andare dal barbiere. La seconda, di comprare un biglietto per il Madagascar. Stando in una situazione di costrizione psicologica, nella quale però, a scopo terapeutico, avevo anche scritto le mie memorie, poi pubblicate come si può vedere qui a destra, era infatti maturata in me la convinzione che fosse giunto il momento di realizzare il mio vecchio sogno di trasferirmi in Africa, passando prima per la grande isola australe e trovando un acquirente per la baita. La baita, poi, la vendetti; in Madagascar ci sono stato già dieci volte, fino a questo momento, ma il sogno di andare a vivere in Africa, l'Africa vera, ancora non l'ho realizzato. Poco male. Ho pur sempre avuto altre avventure. E non è detta l'ultima parola.


Nel frattempo, il ristorante “Al Cacciatore” di Turrida aveva cambiato nome in “Ca dal Pape”, il ristoratore Francesco Babbino, di Coseano, aveva sfidato gli animalisti dicendo che, se lo volevano, potevano comprare il suo ristorante “Al Cacciatore” per un milione di euro ma che lui non avrebbe mai cambiato l'intestazione del suo locale, perché non si deve cedere ai ricatti dei terroristi. Vari presidenti di riserve di caccia diedero alla stampa comunicati in cui invitavano la gente a frequentare proprio quei ristoranti che portassero il riferimento alla loro nobile arte venatoria, per solidarietà verso la famiglia Tomini di Turrida, colpita dai fanatici animalisti, e per dimostrare che il popolo, la parte sana della società, sta dalla parte giusta. Dalla parte del buon senso: da che mondo è mondo, infatti, la caccia è sempre esistita. Anche la famiglia Coletti, di Ragogna, ricevette solidarietà da parte dei loro colleghi di altri salumifici, sotto forma di furgoni isotermici dati loro in prestito per poter effettuare le consegne della....merce, in sostituzione di quelli bruciati dai delinquenti animalisti. Merce, si badi, che prima di diventare tale agli occhi dei buongustai, era composta di persone animali intelligenti, sensibili e soprattutto incolpevoli. Ma questo purtroppo è un discorso che non attecchisce nelle menti rudimentali dei salumai e dei loro sodali.


Qui si apre un capitolo interessante sul piano sociologico. La differente percezione delle cose. Se a me è ben chiaro che i maiali uccisi per essere trasformati in salumi e la selvaggina uccisa per essere servita nei ristoranti “Al Cacciatore” è costituita da persone diversamente abili, diversamente strutturate, ma non per questo prive dei diritti fondamentali alla vita, alla libertà e al benessere, per tutta la gente con cui ho interagito negli ultimi anni (e sto interagendo tuttora in quest'incubo chiamato vita) è solo materia utilizzabile, merce trasportabile, oggetti a nostro uso e consumo, ovvero a uso e consumo del prepotente di turno, la razza padrona chiamata Homo sapiens. A contribuire a questa illusione, a questo inganno, a questa mistificazione, nonché a questa menzogna millenaria, sono un po' tutti: macellai, cacciatori, ristoratori, carabinieri (come quello che si è preso in mano i genitali in mia presenza), giornalisti e soprattutto, non dimentichiamo, uomini di chiesa.


Un giornalista che conobbi quando era ancora alle prime armi, e che voglio qui ricordare, si chiama Daniele Paroni, originario di Bertiolo. Sul Gazzettino, per riferirsi a noi arrestati, fece largo uso di termini quali “malviventi”, “talebani”, “estremisti”, ecc. Naturalmente, le nostre rivendicazioni erano “deliranti”. Insomma, se non avesse usato quel linguaggio non avrebbe potuto fare carriera, né scrivere per giornali mainstream come Gazzettino e Messaggero Veneto e neanche lavorare per Tele Friuli.

La pagnotta prima di tutto e di approfondire il pensiero dei “malfattori” non se ne parla proprio! Troppa fatica. Il Sistema, con le sue leggi, ha stabilito da vecchia data che i maiali si macellino e che la gente vada a mangiare selvaggina cucinata nei ristoranti, anche in quelli che si chiamano sfacciatamente “Al Cacciatore”. Nessuno sforzo, da parte di pennivendoli come il signor Paroni (beato lui che ha un bel posto fisso al quale anch'io ambirei) per capire se ci può essere una realtà diversa e per scoprire, magari, che oltre ad essere diversa è anche più giusta di quella per la quale lui tifa.


Il mondo va così, chi pecora si fa il lupo se la mangia, i lupi umani mangiano le pecore non umane. Ho cercato di oppormi a questa legge universale e l'ho fatto colpendo direttamente gli aguzzini, mettendomi nei guai perché altri aguzzini hanno codificato la prepotenza e l'hanno chiamata Legge. 

Un ringraziamento, anche a vicenda non ancora conclusa, va doverosamente al mio avvocato Lucio Calligaris, triestino (qui a destra), che con la sua costanza ha reso possibile la pena minima che tutto sommato mi è stata alla fine comminata: 13 giorni, che non so ancora come si tradurranno, rispetto ai quattro anni chiesti inizialmente dal pubblico ministero, sono un'inezia se si pensa ai 200.000 euro che la ditta Coletti ha speso per rifarsi il parco macchine e ai 50.000 che la macelleria di Osoppo ha avuto sotto forma di danni. Ci avranno pensato le assicurazioni, ovviamente, ma io, essendo nullatenente e disoccupato, non ho mai sborsato una lira di risarcimento, come mi era stato imposto di fare. Del resto, la magistratura sa che se non ho un lavoro, non posso certo fare rapine per pagare i danni a macellai e salumai. Forse, in un paese meno civile del nostro, mi avrebbero condannato ai lavori forzati, se non addirittura trasformato in schiavo. In quanto ai due giorni di carcere e ai sei mesi di arresti domiciliari, nella vita ci vuole qualche avventura, perché insaporisce l'esistenza, e se si ha la coscienza a posto è una costrizione leggera da sopportare. Al di là di ogni retorica.

2 commenti:

  1. Azioni che hai comunque pagato di persona senza contribuire molto al cambiamento culturale. Una tendenza al "martirio". Sarebbe bello raccontassi anche chi veniva a farti visita nella tua baita per vedere se stavi bene, molto più spesso dei tuoi amici animalisti. Questo non per denigrare l'idealità di chi ci crede, ma per suggerire che dividere il mondo in bianco o in nero è difficilissimo, perché impossibile. Solo con un tratto di penna ideologica (diversa da ideale) è "possibile". Attendiamo le "Memorie di un animalista" vivo.
    Mandi

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    1. Sono molte le cose che ho tralasciato di dire, tra cui anche quella che hai giustamente evidenziato: che gli animalisti, dopo l'arresto, si sono per lo più disinteressati della mia sorte.

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