domenica 18 settembre 2011

Non è un paese per animali



Il friulano Fabio Capello è venuto a inaugurare l’annuale festa chiamata “Friuli D.O.C.” [1], che si tiene in questi giorni in centro a Udine. Ha tagliato il nastro (tricolore) insieme ad altre autorità, così da dare il via a quella che è una grande abbuffata di cibi e bevande. Le due colonne portanti sono il vino friulano e il prosciutto, ma non mancherà la carne e le salsicce alla griglia e, per i vegetariani, frittelle di mele e tortini di mais. Per tacere del formaggio di malga. Quello di San Daniele è il prosciutto più famoso in Italia, dopo forse quello di Parma, ma nell’alta Carnia c’è un’isola alloglotta in cui vivono da secoli popolazioni di lingua germanica che sono conosciute per un tipo particolare di prosciutto, quello di Sauris, appunto, che ha la caratteristica di essere affumicato e di chiamarsi speck. Non è l’unico speck prodotto sulle Alpi, comunque.
Il quotidiano di Udine chiamato Messaggero Veneto non perderà l’occasione di titolare a piena pagina le cifre esorbitanti della partecipazione di pubblico, come anni fa faceva per la “Sagra dei Osei” di Sacile, ma che ora non può più fare a causa della decadenza di quella che è la più antica fiera venatoria. Deo gratias!
 
Sbattere in prima pagina la cifra di centomila visitatori a Friuli D.O.C. significa che il popolo friulano è compatto e saldo nelle proprie radici contadinesche e che, alla faccia della crisi economica, la gente vuole mangiare, bere e divertirsi. E la cultura?
Ce n’è anche di quella, naturalmente, inserita per darsi un tono, per non fare sempre e solo la figura dei crapuloni ignoranti. Ma non troppa, sennò la gente si stufa.
In genere odio gli assembramenti, soprattutto quelli dove si divorano i miei fratelli animali, ma a Udine, sabato mattina, ci sono andato per vedere la mostra itinerante dei dinosauri della Patagonia e in mezzo agli stands sono capitato per caso. Due sono le questioni di rilievo: il consumo di carne animale, eticamente condannabile e funzionale all’insorgere di malattie degenerative, e l’annosa questione dei rapporti tra l’etnia friulana e lo Stato italiano. Della prima questione me ne accorgo solo io e qualche altro animalista, isolati e chiusi nella nostra incomunicabile amarezza; della seconda se ne accorgono solo quei friulani che, forse anche loro con una punta di amarezza, vedono a poco a poco scomparire la loro secolare lingua e cultura precipue.
Che la gente non possa fare a meno di divertirsi se non tormentando animali con i palii e le corse degli asini e non possa parimenti sentirsi sazia se non mangiando cadaveri di animali, è una problematica nascente o forse che non è mai riuscita a decollare nell’immaginario collettivo, perché gli zoofili e gli animalisti non hanno mai avuto la forza d’imporsi adeguatamente, ma anche perché la gente non vuole sentir parlare di certi argomenti. Il fatto poi che le industrie farmaceutiche campino sulle malattie, non aiuta a capire quanto pericolosa sia la carne per la salute umana.

Che la gente percepisca o meno il lento estinguersi di un patrimonio culturale e linguistico minoritario, dipende principalmente da chi è il soggetto che prende in esame l’argomento, giacché se a voler esaminare l’estinzione della lingua friulana è il questore siciliano o il prefetto napoletano o il Provveditore agli Studi calabrese, la questione non si pone proprio. Se a prendere in esame il fenomeno è l’impiegato di Pordenone, il pescatore di Grado o l’operaio di Monfalcone, la questione non si pone ancora, perché nessuno di loro si sente friulano essendo di lingua e cultura veneta. Lo stesso quotidiano di Udine si chiama Messaggero Veneto [2] e più volte qualcuno ha avanzato l’ipotesi che bisognerebbe chiamarlo in un altro modo, ma il proprietario della testata ha sempre risposto che con quella denominazione è nato nell’Ottocento e che con quella morirà.
Forse il quotidiano udinese, con il suo nome alieno, è il paradigma dell’oppressione subita da questa mia etnia sotto il dominio dell’Italia, ovvero a cominciare dal 1866. La lingua friulana sta morendo e io stesso che ho fatto le elementari a Codroipo faccio una fatica bestiale a parlarlo perché non è la mia lingua madre. La mia lingua madre è l’italiano di Dante e non posso farci niente. Il friulano lo parlo una volta al mese, il primo sabato di ogni mese, quando mi ritrovo davanti alla base militare delle Frecce Tricolori, insieme ad alcuni amici, per protestare contro lo spreco di risorse e il disturbo causato quasi quotidianamente dai voli di esercitazione della Pattuglia Acrobatica Nazionale [3]. Più che una protesta, siccome siamo in quattro gatti, è una testimonianza.

Una testimonianza per dire che la cultura friulana non può essere appiattita sul cibo, sul vino, sugli alpini e sulle Frecce Tricolori. La cultura friulana, benché di umili origini contadine, è stata in grado di dare poeti e scrittori non toccati dalla fama, ma non per questo meno validi sul piano della letteratura. Pasolini forse è il più conosciuto, anche se se n’è andato troppo presto da Casarsa, per cercare fortuna nella capitale. L’udinese Carlo Sgorlon ebbe, per qualche tempo, un po’ di notorietà. Fulvio Tomizza, Paolo Rumiz e Claudio Magris non li conto perché sono tre nostri cugini triestini, anzi nemmeno cugini ma proprio alieni, culturalmente e socialmente. Il divario è troppo forte. Se qualcuno li definisse friulani, s’offenderebbero: quando mai un signore può essere paragonato a un contadino?
Lo Stato italiano ha voluto unirci in matrimonio con Trieste, senza che noi fossimo d’accordo e quello che i padri musulmani fanno con le loro figlie, imponendo un marito di cui la ragazza non è innamorata, l’Italia l’ha fatto con noi. Se è riprovevole il caso singolo, dei musulmani maschilisti e autoritari, come mai nessuno batte ciglio sul piano delle etnie? Poi, nella realtà, pro bono pacis, si cerca di vivere pacificamente con tutti, ma se questa convivenza deve implicare anche la soppressione più o meno marcata delle mie radici, com’è stato fatto a me e a migliaia di altri scolari e studenti, allora si configura una forma di violenza, solo un po’ più delicata di quella che la Cina fa in Tibet.

In definitiva, ogni cosa ha una nascita, un periodo d’esistenza e una fine: si chiama caducità delle cose. Sic transit gloria mundi. E’ una legge di natura e ci possiamo fare ben poco. Forse anche i palestinesi sono condannati ad estinguersi, se le politiche di genocidio d’Israele continueranno. In entrambi i casi, la fine di una lingua romanza nelle Alpi orientali e una popolazione araba da secoli stanziata in Palestina, le proteste servono a ben poco. Servono solo a prolungare l’agonia e l’amarezza dei diretti interessati.
Dispiace che un’antica lingua neolatina muoia, ma gli individui, per questo, non muoiono: semplicemente si adattano, come si adattano i tibetani e come vorrebbero adattarsi anche i palestinesi. In tutt’e tre gli esempi, agisce un potere superiore (i governi nazionali) che schiaccia le minoranze, siano esse linguistiche o etnologiche. Della serie: Ubi major, minor cessat. Sembrerebbe ineluttabile.
Nel caso degli animali divorati, anche qui c’è un potere superiore, l’Homo sapiens, che decide cosa mangiare, anche se nel caso degli animali, dotati come sono di anima e personalità, si dovrebbe dire: decide chi mangiare. Della carne di maiale, alle nostre latitudini, e di quella di mucca (al femminile) sentiamo parlare fin da bambini. Abbiamo avuto una specie di imprinting culturale. Braciole e bistecche sono cosa buona e giusta – così ci è stato insegnato - ma se sentiamo parlare di toro allo spiedo e di stufato d’asino, la percepiamo come una novità, un po’ come è stato per la carne di struzzo.
Ho sentito dire che gli asini, a causa della motorizzazione dei mezzi agricoli, si stanno estinguendo. Ma se è così, perché li macellano? L’asino è una buona e utile persona, diceva Dostojewski e, sebbene non intelligente come il cane, può essere di una simpatia irresistibile. Come si può anche solo pensare di assassinarlo per farne bocconcini? Il toro allo spiedo, arrostito a fuoco lento in tutta la sua interezza, tranne la testa, tutto al contrario delle fettine di manzo che ci vengono offerte già incellofanate, con le nervature e le fibre muscolari oscenamente ostentate alla vista del pubblico, ricorda troppo gli accampamenti degli Unni e dei Tartari, dove magari poco più in là c’erano le teste mozzate dei legionari romani. Sa troppo di preistoria e forse non è una bella cosa da mostrare ai bambini. Un po’ di sana ipocrisia ci vuole, che diamine! Ammazziamoli, ma non facciamolo vedere ai bimbi!
A qualche buzzurro, vedere il toro che gira sulle braci, unitamente all’odore della carne bruciata, farà anche venire l’acquolina in bocca, ma a tanti altri, donne e minori soprattutto, potrebbe creare disagio. Io evito di andare a questo genere di sagre e, se ci vado, lo faccio di notte per sabotare il motore del grill.
Non è un paese per vecchi, s’intitolava un bel film dei fratelli Coen [4]. Ecco, il Friuli, come anche il resto del mondo, non è un pianeta per animali. Né per animalisti.
Ci vorrebbe un’arca di Noè spaziale, che ci carichi tutti, animali e animalisti. Gli altri possono anche andare all’inferno!
Quando saranno pronte le nostre astronavi?


Note:

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