venerdì 16 settembre 2011

Walter




Mio padre è morto a 82 anni, dopo una vita passata tra i banchi di scuola. Walter Bonatti è morto a 81, dopo una vita avventurosa cominciata con l’alpinismo a diciotto e finita come esploratore giornalista nella notte tra il 13 e 14 settembre.
Due vite a confronto. Quella di mio padre, sedentaria e piccolo borghese, senza infamia e senza lode, come insegnante elementare. Quella di Bonatti, all’opposto, fatta di bivacchi in parete, di freddo e rischi di congelamento, ma anche di viaggi in terre esotiche, tra nugoli di zanzare e “belve” feroci, come corrispondente della rivista Epoca. Bonatti è stato un uomo eccezionale e, per uomini come mio padre, ha rappresentato il Sogno. Il sogno di una vita diversa, irraggiungibile. E’ anche grazie a vite come quella di Bonatti che le vite scialbe di milioni di schiavoratori sono rese accettabili. Walter è stato una valvola di sfogo nell’immaginario collettivo, un archetipo. Mio padre raccoglieva tutte le dispense dei suoi reportage, su Epoca, con quelle foto sgranate a piena pagina, che mostravano paesaggi e mondi inimmaginabili. Walter era un mito anche prima di morire. Chissà quanto durerà la sua fama?
 
Oggi tutti a tesserne le lodi, come si confà con i trapassati, ma per 54 anni Walter ha aspettato che la verità venisse a galla, quella verità negatagli dal capospedizione Ardito Desio e dal C.A.I., che avevano predestinato la conquista del K2 ad Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, nel lontano 1954. Solo nel 2008 è stata accettata la versione di Bonatti, in contrapposizione a quella di Compagnoni. Per una sorta di inconsapevole cattiveria, lo stesso giorno in cui l’ex presidente Ciampi, nel 2004, convocava Bonatti per conferirgli un’onorificenza, per porre una pietra sopra ogni passata incomprensione, si scoprì che anche l’antico rivale Compagnoni veniva insignito del medesimo riconoscimento e Bonatti, giustamente, rifiutò il premio. Cinquant’anni di calunnie e poi si appianano le cose con un colpo di livella? Sullo stesso piano onesti e disonesti? No, non è possibile!
Il 30 luglio 1954, il ventiquattrenne Bonatti portava le bombole d’ossigeno a Compagnoni e Lacedelli in quello che doveva essere il campo 9, come concordato. Invece, arrivato con la guida Mahdi sul luogo stabilito, dopo una scalata massacrante, Bonatti non trovava la tenda dei due compagni di scalata, perché Compagnoni aveva deciso di accamparsi 250 metri più in su. Tornare indietro non era possibile perché la notte incombeva e fu così che con meno 50 gradi, senza tenda né sacco a pelo, Bonatti e la guida dovettero lottare con la morte, dato che le due primedonne non volevano correre il rischio che a salire per primo in vetta al K2 fosse proprio “il bocia” bergamasco. Bonatti e Mahdi sopravvissero a una notte di gelo, la guida ebbe diverse dita amputate per congelamento, Desio (appoggiato dal C.A.I.) fornì alla stampa la versione di Compagnoni e al ragazzo Bonatti venne impresso il marchio dell’inetto e dell’inaffidabile.
Esperienza che lo amareggiò a tal punto che, a partire da quel momento, lo spinse a preferire le scalate in solitaria, piuttosto che quelle di gruppo e, undici anni più tardi, nel 1965, a lasciare l’alpinismo estremo definitivamente, con un’ultima impresa spettacolare: la salita della parete nord del Cervino, in solitaria, d’inverno e su una via del tutto nuova. Fu il corollario delle sue esperienze alpinistiche.
Come per Leone Tolstoi c’è lo spartiacque dei cinquant’anni, così per Bonatti c’è quello dei trentacinque. Di modo che, come c’è un Tolstoi ante 50, scrittore, cacciatore, carnivoro, latifondista e, di conseguenza, schiavista, ma c’è anche un Tolstoi post 50, educatore, anticaccia, vegetariano, proprietario terriero illuminato e datore di lavoro benevolo, così c’è un Bonatti ante 35, alpinista e un Bonatti post 35, esploratore.
Grazie alla sua fama di scalatore indomito e indistruttibile, figura nuova in Italia per quei tempi, si aprirono per lui diverse porte. La Mondadori, attraverso la rivista Epoca, gli spianò la strada per diventare inviato speciale nei luoghi più impervi e sconosciuti del Pianeta. Andò a riempire una nicchia scoperta, quella dell’esploratore moderno e siccome già si cominciavano a sentire i primi vagiti dell’ecologismo (il 1970 fu dichiarato anno europeo della Natura), dai suoi testi peraltro piuttosto ingenui e naif si percepisce una qualche tendenza a favore degli animali e dell’ambiente e contro la caccia. Una tendenza e nulla più, perché manca in lui la sicurezza e la determinazione, limitandosi a una vaga lamentela verso l’uomo folle e cattivo che distrugge l’ambiente. Le sue prese di posizione sono come le denunce contro ignoti: non hanno mordente e lasciano tutto come prima.
Non voglio sparare a zero contro un uomo tutto sommato eccezionale, perché forse quelli erano i tempi e più di così non si osava andare. Attribuire la scomparsa di specie rare e preziose alla cattiveria umana è un po’ come dire che le guerre succedono perché le abbiamo scritte nei nostri geni, tutti quanti e quindi siamo noi la causa dei nostri mali. Oggi, che siamo un po’ più smaliziati, sappiamo che a causare guerre e distruzione della natura sono persone o corporazioni ben precise, che lo fanno per scopi statutari e d’interesse economico e pretendiamo giustamente che ci vengano forniti nomi e cognomi, che per altro si conoscono.
E questo per il semplice motivo che, conoscendo i responsabili, si può almeno cercare di fermarli, ma se si rimane nel vago, e si resta in un angolo, a capo chino, a recitare il mea culpa, non si risolve un bel niente.
Oggi, che oltre a essere un po’ più smaliziati, abbiamo la tendenza a lasciarci prendere dal sospetto, ci potrebbe essere qualcuno che inserisca anche Walter Bonatti nel piano degli Illuminati che sembra abbiano voluto creare le associazioni ambientaliste per poter continuare a distruggere l’ambiente, pur sedendo nel consiglio direttivo del W.W.F.
Non posso escludere del tutto che una tale subdola manovra sia stata implementata, ma resto del parere che la preoccupazione verso le specie animali che si estinguono e l’ambiente che viene modificato sia sorta collettivamente nella coscienza della gente, in virtù di una spontanea presa di coscienza. In virtù di quel fenomeno di cui molti anni fa, prima d’essere arrestato, anche Adriano Sofri parlò, dicendo che la nostra attuale epoca è un’epoca di pentimento. E’ mai possibile che il principe Filippo d’Edimburgo abbia indirizzato l’opinione pubblica mondiale fino al punto di far entrare nella nostra consapevolezza l’idea che la natura va salvaguardata? Ha, da solo, tutto questo potere? E’ mai possibile che Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma, abbia avuto anche lui il potere di indirizzare il pensiero di milioni di occidentali, nauseati dalle politiche economiche ed ambientali dei propri governi? Io credo che ci sia, da parte di alcuni studiosi di complottismo, una sopravvalutazione del loro potere, appoggiati o meno che siano stati, Peccei e il principe Filippo, dagli Illuminati. A meno che non si voglia inserire a pieno titolo, nella cricca massonica, anche Sofri, unitamente alle migliaia di autori, pensatori e filosofi che da quarant’anni stanno facendo le cassandre riguardo ai nostri scellerati rapporti con il pianeta Terra.
Bonatti non è mai stato toccato da tali questioni esacerbate, ma si è limitato ad offrire le sue esperienze di viaggiatore nei più svariati ambienti, dai ghiacci dell’Alaska, alla foresta amazzonica, dalla Patagonia alla barriera corallina australiana, dalle savane africane alla giungla di Sumatra. Se da una parte si dichiarava contro la caccia, dall’altra, in Kenya, rammaricandosi, ingaggiò cacciatori professionisti per provare cosa significasse uccidere un leopardo e questo mi ricorda il ragionamento di un mio amico che porta i bambini al circo per far loro vedere come vengono maltrattati gli animali e fa loro mangiare carne aspettando che siano loro, una volta cresciuti, a decidere di diventare vegetariani.
Di questo genere di ragionamenti proprio mi sfugge la logica.
Oltretutto, Bonatti ammise che in totale, contando anche le gazzelle usate come esca, quel giorno furono uccisi nove splendidi animali, solo affinché lui provasse l’esperienza della caccia al leopardo. In altre occasioni, per esempio durante le immersioni ai Carabi o presso la barriera corallina australiana, non si faceva scrupolo a pescare quanto servisse per il suo sostentamento e per quello delle guide. Per tacere del fatto che, raccontando la sua esperienza africana, diceva di provare rispetto per gli animali selvatici, ma nella realtà non si asteneva dall’avvicinarsi ad essi facendoli scappare e a uno sguardo smaliziato la cosa sembrerebbe proprio – e nient’altro che - un rompergli le scatole. E solo per provare l’ebbrezza di vedere decine d’ippopotami o coccodrilli allontanarsi da lui spaventati.
Anche questo, se vogliamo esser pignoli, è uno strano modo di mostrare rispetto per animali che chiedono solo d’esser lasciati in pace. Tuttavia, a parziale giustificazione, anche qui possiamo dire che quelli erano i tempi, poco esigenti e grossolani, in cui il predominio dell’uomo sul creato era ben saldo, anche se cominciavano ad affacciarsi alla sua consapevolezza le prime avvisaglie di animalismo, se mi si passa il termine, ovvero la naturale evoluzione della zoofilia anni Cinquanta, alla Angelo Lombardi, per intenderci. Anzi, si potrebbe dire che Bonatti sia stato, senza televisione, ciò che Mario Tozzi è in confronto a Piero Angela. Sedentari Lombardi e Angela; “open air” Bonatti e Tozzi.
Se c’è una cosa ammirevole che in Bonatti si è attuata durante le sue esperienze africane, è il suo rifiuto di dotarsi di un’arma. Nemmeno di una pistola. Attraversava la savana a piedi senza un’arma da fuoco, ma solo con un coltello, perché era convinto quasi superstiziosamente che fosse l’arma stessa ad attirare le disgrazie. Ovvero le aggressioni da parte di leoni o altri temibili animali. Si può sorridere o meno di questo vezzo, che alcuni potrebbero considerare addirittura folle, ma nei suoi lunghi giorni di cammino e di pernottamento nella savana del Kenya non gli è mai capitato niente di serio. O era del tutto incosciente o è stato molto fortunato. Eppure, nel libro “Ho vissuto tra gli animali selvaggi”, Zanichelli, 1980, descrive alcuni suoi incontri ravvicinati con bufali e leoni, tutti andati a buon fine. Evidentemente, conosceva un po’ di psicologia animale, così da sapersi destreggiare.
Ciò non di meno, il rifiuto di affrontare l’Africa armato maturò nel 1966, mentre l’anno prima, durante i cinque giorni passati sull’isola di Unimak, nelle Aleutine, alla ricerca dell’orso Kodiak, insieme al resto dell’equipaggiamento aveva anche un fucile, per altro mai tolto dalla custodia. Offrirsi disarmato ai pericoli africani fa il paio con la nuova consapevolezza propugnata dal suo discepolo Messner, secondo cui parlare di conquista riguardo al raggiungimento delle vette è un modo scorretto, imperialista, di porsi nei confronti delle imprese alpinistiche, una mancanza di rispetto. Idea per la quale Messner passerà alla storia come l’anarchico della montagna, una sensibilità encomiabile che però non gli fu sufficiente per diventare anticaccia come il suo maestro. Messner, infatti, non è contrario alla caccia, poiché evidentemente l’influenza del contesto sociale in cui è nato, degli Alpenjager, è stata prevalente rispetto alle tendenze blandamente protezionistiche del suo mentore.
Un altro mito dello sport di quegli anni, Fausto Coppi, in Africa invece ci andava armato, a caccia di animali, ma la Nemesi lo raggiunse giustamente con una malaria fulminante. E, visto che stiamo facendo confronti, mi corre l’obbligo di citare un altro sfortunato esploratore: il triestino Ambrogio Fogar. Ad accanirsi contro di lui, sorvolando sul plagio che fece copiando, nei suoi resoconti, il testo di un altro autore, fu il destino che lo inchiodò su una sedia a rotelle durante un banale incidente di macchina. Se si considera che Fogar si fece dare uno strappo da un aereo mentre era diretto, a piedi, al Polo Nord, sperando che la cosa non si venisse a sapere, si deve concludere che, tra i due, il più corretto sportivamente fu Bonatti. L’onestà e la lealtà sembrano far pendere l’ago della bilancia verso il bergamasco piuttosto che verso il triestino.
Con la morte di Bonatti finisce un’era. Muore forse l’ultima persona seria in Italia. L’ultimo uomo vero e rispettabile. Anzi no, arriva tardi, poiché l’ultimo è stato mio padre.

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