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aprile 1944 – STRAGE NAZISTA A TRIESTE. I MARTIRI DI VIA GHEGA.
I
nazisti impiccano a Trieste 50 eroi. Impiccati alle balaustre delle scale e
alle finestre del Conservatorio e lì lasciati appesi per giorni.
Così “Il Giornale di Trieste” del 17 aprile 1954 ricordava i “martiri di via Ghega”,
citando anche Marco Eftimiadi:
“L’ esecuzione avvenne di buon mattino e sembra durasse piuttosto a lungo
nonostante la cruda semplicità del cerimoniale. Una delle vittime – lo studente
Marco Eftimiadi di ventidue anni – venne prelevato dall’infermeria del Coroneo
alle sette del mattino, ma sembra ch’egli sia stato uno degli ultimi a salire
il patibolo. Citiamo il suo nome, fra i tanti, perché sulle sue ultime ore
abbiamo raccolto qualche testimonianza. Era stato arrestato in seguito alla
delazione di un rinnegato: sorte ch’egli ebbe in comune con moltissime altre
vittime di quegli anni terribili. Si trovava al Coroneo già da un mese. Un mese
d’inferno, fra continue intimidazioni e torture. Non parlò, non fece un nome,
non disse nulla che potesse compromettere la causa. Quando vennero a
prelevarlo, quella mattina, disse ai suoi compagni di prigionia che non gli
importava di morite: “Mi vendicheranno” – disse. Ma parlò senza odio nella voce
come se dicesse una cosa ovvia”.
Ancora
da quell’articolo: “Il giorno stesso della strage, quando i familiari
delle vittime giunsero alle porte del carcere per recare i soliti pacchi ai
detenuti, questi furono respinti. Chi chiedeva notizie del suo caro riceveva
una sola risposta: “Non è più qui”. Senza altra indicazione o commento. Molti
attesero la fine della guerra con la speranza di veder ritornare il loro caro
da un campo di concentramento. Ma qualcuno sospettò subito quanto era avvenuto
e ne ebbe tremenda conferma passando di fronte al tragico palazzo di via Ghega,
alle cui finestre vide penzolare il corpo inanimato del figlio, del fratello o
della moglie.
Sulle
modalità dell’esecuzione si hanno due diverse versioni. Vi è chi afferma che le
vittime predestinate giunsero sul luogo del sacrificio già quasi incoscienti
per l’effetto del gas che sarebbe stato immesso nei camion durante il trasporto
dalle carceri a Palazzo Rittmeyer. Altri dicono che i martiri affrontarono il
sacrificio con piena coscienza e che il loro comportamento fu eroico. A gruppi
di cinque salirono l’ampio scalone, dovettero quindi montare, spinti dai boia
nazisti, sulla ringhiera di marmo e furono infine scaraventati nel vuoto con al
collo un nodo scorsoio. Quando non ci fu più posto e non vi furono più
colonnine della balaustra per sostenere altri corpi, i tedeschi trovarono
subito altre forche improvvisate e i cappi vennero fissati alle imposte delle
finestre e agli armadi a muro. Cinque giorni più tardi, un gruppo di SS veniva
inviato sul posto a recidere con la baionetta le corde che sostenevano ancora i
corpi dei martiri, e questi caddero nella tromba dello scalone, ove erano ad
attenderli altri SS per gettarli nelle bare”.
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