Testo di Alessandro Mezzano (mail)
47 anni fa, il 19 gennaio 1969, in piazza San Venceslao a Praga, lo studente Jan Palach si dava fuoco per protestare contro l’invasione dei comunisti russi che non accettavano la democratizzazione della Cecoslovacchia e volevano mantenere ad ogni costola ladittatura centralizzata che faceva capo a Mosca. Altri due studenti ne seguirono l’esempio nelle successive settimane. Come d’uso per il comunismo sovietico, i carri armati dell’armata rossa avevano schiacciato sotto i loro cingoli i moti d’indipendenza dei patrioti cecoslovacchi come avevano già fatto nel 1956 in Ungheria con gli insorti Ungheresi. Togliatti e tutto l’olimpo politico comunista italiano avevano servilmente appoggiato in entrambi i casi la repressione sovietica in nome dell’internazionalismo comunista.
Fu il caso, clamoroso, del "Manifesto delle duemila parole", lanciato dallo scrittore Ludvik Vaculik e sottoscritto a fine giugno da decine di intellettuali praghesi per sollecitare Dubcek a continuare la strada delle riforme e a non cedere alle crescenti pressioni del Cremlino che fu o ignorato come dall’Unità, organo ufficiale del PCI, o avversato da Rinascita o controbilanciato con la tesi, che sempre essi avanzano contro gli oppositori, che in Cecoslovacchia gli insorti erano “fascisti antirivoluzionari”. Alcuni di loro sono ancora vivi come D’Alema e Napolitano, ma anche quelli morti allora inneggiarono alla repressione sovietica. La riprova si ebbe poco tempo fa quanto Napolitano, che voleva recarsi in Ungheria a commemorare, fu respinto e dichiarato “indesiderabile“. Persino il beneamato Presidente Pertini dichiarò che in Ungheria i comunisti venivano «torturati, trucidati, impiccati», per poi giungere a questa conclusione: «Se tacessimo, considerando questa bestiale reazione una logica conseguenza delle responsabilità dei dirigenti comunisti da noi tempestivamente denunciate, cesseremmo di essere socialisti, e diverremmo, sia pure inconsapevolmente, complici della reazione che in Ungheria tenta di riaffermare il suo antico potere».
Ma, si sa, la scarsa vivacità intellettuale di Pertini era cosa nota, come il fatto che prediligesse le bottiglie di barbera ai libri di filosofia politica. Nessuno degli allora dirigenti del PCI si dissociò da quella infame solidarietà per l’impero comunista sovietico, nemmeno quelli che oggi si dichiarano super democratici e d’altronde nessuna condanna fu mai pronunciata per la servile sottomissione di quegli infami, a dimostrazione di una continuità di sentimenti nascosti che anima il comunismo nostrano, anche quando tenta di tingersi di rosa. Noi commemoriamo Jan Palach come il martire dell’anticomunismo ed il difensore del principio dell’indipendenza del proprio Paese dall’oppressione comunista sovietica e lo citiamo come esempio sublime di un idealismo che va oltre la vita propria per vivere nella solidarietà verso i propri connazionali.
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