venerdì 28 ottobre 2011

Il DNA di Spartaco





Fa più notizia un uomo attaccato da un cinghiale durante una battuta di caccia o un cinghiale che vende cara la pelle ribellandosi al destino di vittima?
Secondo le regole del giornalismo, se un cane morde un uomo, non interessa a nessuno, ma se un uomo morde un cane è una cosa mostruosa e i mostri - altra regola - vengono sbattuti in prima pagina.
A volte si usa dire che quello tra uomini e animali è un rapporto difficile, ma dire difficile è un eufemismo. In realtà, a ben guardare, si tratta di imperialismo bello e buono. La madre di tutti gli imperialismi e quello degli USA sul resto delle nazioni è acqua fresca se paragonato all’imperialismo umano nei confronti delle bestie.
 
Anzi, si potrebbe dire che gli americani, ma anche i russi, i cinesi e quant’altro, abbiano adottato il preesistente modello culturale imperialista specista per dominare gli altri popoli, nello stesso modo in cui il razzismo è una derivazione dello specismo. E non viceversa.
Solo che nello stesso modo in cui gli uomini si focalizzano sul razzismo e non vedono il sottostante specismo, i giornali parlano delle vittime della caccia quando a morire o a rimanere feriti sono esseri umani e non parlano quasi mai, se non in accenno, quando a morire o a rimanere feriti sono gli altri animali. Così, nel caso in oggetto, dell’uomo ferito da un cinghiale siamo venuti a sapere nome, cognome, età e professione e altri particolari che spingano il lettore a provare empatia.
Viceversa, del cinghiale siamo venuti a sapere solo che era un grosso maschio: niente nome, cognome, età o altri particolari che ci permettano di provare simpatia per lui, al quale è stato riservato il ruolo storico di vittima e da lì non deve permettersi di uscire.
Che anche l’uomo sia un animale appartenente alla famiglia delle scimmie viene taciuto; che nome e cognome siano orpelli sovrastrutturali di tipo anagrafico e di nessuna importanza ai fini dell’informazione della notizia, non viene in mente a nessuno e forse già qui si potrebbe ravvisare una prima manipolazione della notizia.
C’è un bellissimo film, Mississippi burning [1], che cito spesso come paragone tra razzismo e specismo. Quando la gente del luogo si riferisce alla scomparsa dei tre ragazzi pacifisti, due ebrei e un negro, commette una gaffe incredibile dicendo che i ragazzi erano due, quelli di pelle bianca. Il terzo ragazzo, di colore, semplicemente sparisce dalla loro percezione e dalla loro consapevolezza. Si trattava, in quel caso, di gente razzista degli stati del sud degli USA e i sospetti dell’uccisione e successiva sparizione dei corpi dei tre giovani cadevano sul Ku Klux Klan.
Ecco, con gli animali ci comportiamo nello stesso modo: spariscono dalla nostra percezione e consapevolezza. E’ come se non esistessero, dato che nella nostra immensa arroganza non siamo abituati a prenderli in considerazione come persone, ma solo come oggetti e merce. Così ci è stato insegnato e così ci comportiamo di conseguenza.
Quando l’Homo assassinus va a caccia o a macellare animali o in laboratorio a torturarli, sia lui che è il diretto interessato, sia gli astanti e chi potrebbe essere fruitore di un’eventuale notizia in merito, non riesce a vedere nell’animale un soggetto portatore di diritti, emozioni, sentimenti e tutto ciò che fa di noi stessi, legalmente, enti di diritto intangibili e inalienabili.
Tanto è vero che l’abbattimento di un cane randagio è diverso dall’uccisione di Fido, vaccinato, sverminato, microchippato, di età conosciuta e appartenente alla famiglia Tal dei Tali. Già un cane o un gatto che godono del privilegio di far parte della famiglia che li ha adottati diventano, nella nostra percezione, qualcosa di molto diverso da un cagnaccio pulcioso, rognoso, senza nome e senza padrone. In quest’ultimo caso si parla di abbattimento, ma nell’altro di uccisione, anche se i “padroni” più affezionati sentono intimamente che si tratta di assassinio. Siccome dobbiamo riferirci alla situazione di fatto, per legge quando viene ucciso un cane di famiglia non si può parlare di assassinio. Non ancora, anche se ci stiamo lavorando, con grande disappunto degli specisti più incalliti.
Poiché gli schemi mentali dei cacciatori, che sono i neandertaliani della razza umana, veri fossili viventi, sono di tipo binario, cioè tendenzialmente manicheista e fascista, ci sono prede che possono ricevere il loro rispetto e altre che non lo possono ricevere, a seconda del comportamento. Per capirci, nessun cacciatore proverà per un capriolo lo stesso rispetto che può provare per un cinghiale. I caprioli si lasciano uccidere senza ribellarsi, come gli ebrei si lasciavano condurre docilmente nei campi di concentramento, mentre i cinghiali, se messi alle strette, possono attaccare l’uomo che gli sta dando la caccia. Per tacer dei cani. Ne consegue che come i razzisti tuttora viventi disprezzano gli ebrei per non essersi ribellati e portano un minimo di rispetto per i partigiani, così gli specisti calibro 12 disprezzano i caprioli e intimamente ammirano i cinghiali. In più, come i partigiani venivano esteriormente odiati ma intimamente rispettati, così i cinghiali vengono esteriormente odiati ma intimamente rispettati.
Un contadino che ha i campi devastati dai cinghiali li odia, ma un cacciatore che non ha l’orto danneggiato è più propenso a rispettarli che a odiarli, anche se questo rispetto non gl’impedisce di ucciderli, mentre ai caprioli riserverà solo asciutto disprezzo. C’è solo un caso documentato di un cervo che si difende a cornate da un cacciatore [2], evento più unico che raro dato che la natura ha previsto che i cervidi si difendessero dai predatori scappando.
Ad ulteriore prova del fatto che il guerriero o il cacciatore ammirano chi cerca di stare alla pari con loro e disprezzano il vile che non sguaina la spada, i libri di Storia ci parlano di un trace di nome Spartaco [3], che si ribellò alle autorità dell’epoca, ma non ci dicono niente di quella massa anonima di gladiatori che si sottomisero alle spietate leggi dei razzisti di cui erano mera proprietà.
Conoscendo la psicologia venatoria, avendola combattuta per molti anni, so che la caccia alla tigre o, nelle nostre latitudini, all’orso, è molto più emozionante della caccia al colombaccio o al fringuello. Tigre e orso potrebbero danneggiarci fisicamente, mentre fringuello e colombaccio no. Sta tutta qui la differenza tra adrenalina a mille e meccanica routine macellatoria. Peccato che orsi e tigri siano in via d’estinzione, ridotti al lumicino dai cacciatori del passato, che non si lasciavano sfuggire simili adrenaliniche occasioni! Oggi si cerca di salvaguardare le due specie, tigre e orso, e anche se cacciatori, allevatori e contadini brontolano un po’ e si appellano alla sicurezza del pubblico, sotto sotto sperano che gli orsi crescano di numero, così da poterli cacciare di nuovo. Il problema è risolto, dal loro punto di vista, in Slovenia, Romania e altri paesi dell’est in cui l’orso è già cacciabile. Riguardo alla tigre indiana, siberiana e delle altre aree asiatiche, è ovunque protetta, per legge, ma non è da escludere che qualche esemplare venga ucciso per difesa o a causa di atti di bracconaggio.
E’ per questa ragione, per il suo potenziale istinto ribelle, che Gian Paolo Ceserani, nel 1982 poté pubblicare “La rivolta dei cinghiali” [4], titolo significativo che fotografa il carattere per nulla mansueto della razza. E’ vero che George Orwell scrisse “La fattoria degli animali” [5], in cui descrive una rivolta delle bestie contro l’uomo oppressore, ma vi sono specie docili per natura che difficilmente vengono prese a modello di insurrezione e ancora devo trovare un libro intitolato “La rivolta delle pecore”.
Anni fa mi regalarono una cinghialetta. Era stata trovata da un veterinario in un bosco piemontese, e forse la madre naturale era stata uccisa dai cacciatori. L’uomo, che era anche professore d’università, la diede in consegna a un suo studente animalista, che la portò a me. Già ne avevo una, figlia di cinghiale sardo e maiale vietnamita, e le due cinghialesse, Francis e Cindy, si tennero compagnia per qualche anno, fino alla loro morte naturale.
Come tutti i suini, com’è notorio, erano molto intelligenti. La mezzosangue rimase docile tutta la vita, ma la cinghiala venuta dalla selva, lo fu solo in giovane età. Poi, da adulta, l’istinto ebbe il sopravvento, ma a quell’epoca l’avevo già data a un amico che la tenne in un recinto a prova di fuga, con rete elettrosaldata. Altrimenti, nulla avrebbe potuto fermare quel carro armato della natura. Rimetterla in libertà era impossibile e avrebbe significato condannarla a morte, come succede con tutti gli animali sottoposti a imprinting. Così, quell’atto di pietà di un veterinario piemontese si trasformò nella condanna all’ergastolo per un innocente animale e almeno in questo caso si può dire che i rapporti tra uomini e animali sono difficili. La colpa, però, fu dei cacciatori, che a monte di questa piccola anonima e poco significativa tragedia scompigliarono le carte e guastarono – come fanno da parecchi millenni – i rapporti di amicizia che pure sarebbero possibili tra noi e gli animali.
Molti non se ne rendono conto, ma i cacciatori e gli altri aguzzini, plasmano questo pianeta sulla forma del male e lo rendono un inferno per tutti, cominciando dagli animali. Se il mondo può essere trasformato dalla volontà, per averne uno paradisiaco bisogna prima eliminare tutti coloro che praticano il male. E’ lapalissiano!
Nel frattempo, atti di ribellione come quello dell’anonimo gladiatore zannuto, che ha attaccato uno dei suoi persecutori in Liguria, ci rivelano che il DNA di Spartaco è ancora diffuso su questo pianeta e lo è anche in specie diverse dalla nostra. Anche se questo non plasmerà il mondo secondo i nostri intendimenti, potrà almeno farci riflettere sul fatto che lo Spirito è presente ovunque, in ogni forma di vita. E noi non ne abbiamo il monopolio.


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