mercoledì 19 ottobre 2011

L’ambigua natura della violenza



Il collega blogger Jacopo Castellini così si è espresso recentemente: “Con la violenza si potrà creare solo altra violenza” [1], frase che esprime lo stesso concetto gandhiano secondo il quale “occhio per occhio rende tutto il mondo cieco”.
Di per sé, tale condivisibile enunciato rappresenta una caratteristica lampante – oserei dire lapalissiana - della violenza, ma a un più attento esame si scopre che la violenza mostra molte sfaccettature e in certi casi può essere valutata persino positivamente. In realtà, la violenza è uno di quei comportamenti umani che ci fanno cadere nella più completa incertezza. Tanto per cominciare essa cambia di significato se è commessa su di noi o su altri. Cambia ancora di valore se è commessa sulla nostra etnia o su altre. E cambia ancora, diametralmente, di sostanza se è commessa sulla nostra specie o su altre.
 
Che ci lasci indecisi circa una chiara e precisa valutazione, è testimoniato dal fatto che molti genitori, supportati da altrettanti pedagogisti, considerano positivo lo scapaccione dato ai propri figli in particolari situazioni. Salvo poi venire a sapere che in Svezia un padre pugliese alle prese, per strada, con un figlio riottoso, è finito in prigione per aver tirato i capelli al ragazzo [2]. Se è lecito (ma solo fino a un certo punto) paragonare la Svezia all’Italia e se è vero che la prima è civilmente superiore alla seconda, allora bisognerà che i pedagogisti e gli educatori italiani rivedano le proprie convinzioni, perché, se tanto mi dà tanto, potrebbe essere vero che la violenza inflitta per scopi educativi ai bambini genera una società di adulti vendicativi e va ad incrementare la criminalità. Ad avvalorare tale ipotesi si potrebbe portare ad esempio il Regno Unito, che ha il teppismo giovanile in cima alla lista dei problemi di natura sociale e guarda caso in Gran Bretagna le punizioni corporali erano ammesse nelle scuole fino a pochi anni fa.
Dobbiamo, però, fare un passo indietro e distinguere l’aggressività dalla violenza. Le differenze tra i due concetti dovrebbero essere abbastanza evidenti e il primo scienziato a mettere in chiaro le cose fu Konrad Lorenz ancora nel 1963, con uno dei suoi libri più famosi: “Il cosiddetto male” [3]. Anche chi non dovesse averlo letto, dovrebbe rendersi conto che l’aggressività negli animali, uomo compreso, è un utilissimo espediente dell’evoluzione degli organismi viventi. Senza l’aggressività naturale la sopravvivenza delle specie animali non sarebbe stata possibile. Ciò non di meno, per rimarcare la peculiarità della nostra specie, si potrebbe dire che gli altri animali, anche quando uccidono, non sono assassini, perché gli animali non hanno il Quinto Comandamento. Sono stati definiti anche “assassini senza colpa” e forse sta proprio qui la differenza ontologica tra aggressività e violenza. A parte i giudici medievali che, ispirati forse da reminiscenze animiste, mettevano al rogo cavalli, buoi e maiali rei di aver ucciso i loro padroni, nessun codice penale attualmente in vigore condanna un animale “colpevole” di aver causato la morte di esseri umani. Ci pensano già i diretti interessati a farsi giustizia da sé [4].
C’è da dire, tuttavia, che l’Homo sapiens, oltre ad avere la naturale aggressività che possiede in comune con gli altri primati, ha qualcosa in più che viene a complicare le cose. I mistici lo chiamano libero arbitrio, ma in quest’epoca di dissacrazione dei luoghi comuni c’è anche chi lo mette in discussione, negando la sua esistenza. Comunque sia, di fatto, se abbiamo coniato un termine differente, “violenza”, che si aggiunge ad “aggressività” come una specie di sovrastruttura, significa che riconosciamo ai due concetti una valenza distinta e separata. L’uomo può essere violento, mentre l’animale non lo è mai.
In questo senso s’inquadrano le teorie romantiche di J.J. Rousseau che parlava di “Buon Selvaggio”[5], teorie eurocentriche intrise di razzismo mascherato, salvo poi constatare, pochi giorni fa, che buono, il selvaggio, non lo è sempre e comunque [6]. Chissà se i buoni selvaggi che hanno mangiato il velista tedesco in una delle isole Marshall si sono fatti venire i sensi di colpa? O forse non sapevano nemmeno che mangiare carne umana è vietato dalla legge?
In quel caso particolare, memori di un’antichissima tradizione antropofaga, quei buoni selvaggi miravano solo a risolvere il problema della cena, stufi forse di una dieta a base di pesce, mentre in altri casi l’autore della violenza potrebbe voler raggiungere uno scopo più alto, addirittura etico, in vista di un risultato favorevole all’intera collettività. Niente materialismo alla base di un semplice pasto per riempirsi la pancia, ma un ideale spirituale per dare giustizia all’umanità sofferente. Paradigmatico in questo senso fu l’attentato, fallito, a Hitler, da parte di Von Stauffenberg [7] o quello dell’irlandese Violet Gibson e degli altri attentatori a Mussolini [8] e noi posteri siamo oggi qui a chiederci come sarebbe andata la Storia se quei due attentati avessero avuto successo. E potremmo anche chiederci come sarebbe stata la Storia dell’uomo se qualcuno avesse fatto fuori dèmoni del calibro di Vlad Tepes [9], Ezzelino da Romano [10] o Ivan il Terribile [11]. Di fatto, nessuno di loro fu fermato in tempo, prima che commettessero i crimini che il loro ruolo di potenti gli permetteva e ancora oggi, a distanza di secoli, noi rabbrividiamo di fronte a tale spietata violenza, tanto che anche noi, come i loro sfortunati contemporanei, ci chiediamo se nelle spoglie di esseri umani non si nascondessero entità demoniache. Vuoi vedere che David Icke, con i suoi rettiliani, l’ha vista giusta!
Se Von Stauffenberg oggi viene visto con simpatia, benché sia un eroe mancato in virtù del principio che la vittoria ha molti padri, ma la sconfitta è orfana (e la stessa cosa si potrebbe dire di Gaetano Bresci [12]), vi sono eroi misconosciuti, di serie B, che finiscono regolarmente per diventare malvagi agli occhi dell’opinione pubblica indipendentemente dal fatto che falliscano o abbiano successo. Si possono chiamare criptoeroi, o eroi di altre dimensioni, di altri pianeti, non certo di questo nostro pianeta in cui la violenza sembra essere stata presa a regola di vita.
Sto parlando di quegli animalisti coraggiosi, figli di un Dio minore e avvocati delle cause perse, che combattono la violenza istituzionalizzata con altra violenza e come nel caso dei Black Bloc i mass-media focalizzato la loro maliziosa attenzione sulle devastazioni di beni immobili da essi compiute e non sulle devastazioni silenziose e occulte dei potentati economici, così anche nel caso dell’Animal Liberation Front i media strombazzano l’ingenua violenza di un attentato incendiario [13] e tacciono quella di miliardi di creature assassinate legalmente dagli uomini.
Dico assassinate e non uccise perché credo che l’uomo sia dotato di libero arbitrio e che abbia una marcia in più rispetto agli altri animali. Se viceversa fossimo “buoni selvaggi” e seguissimo ancora le leggi della natura come i nostri antenati ominidi, allora direi “uccisi” e non “assassinati”. Ma fin quando ci vanteremo di essere superiori alle bestie, di possedere anima, intelligenza, tecnologia e quant’altro, mi vedrò costretto a dire che l’uccisione deliberata degli animali è un vile assassinio e non una semplice uccisione, come vorrebbero fosse tanti cacciatori, macellai o semplici consumatori di carne. Sarebbe così se non avessimo sviluppato la cosiddetta civiltà, ma, a vostro disdoro, cari benpensanti, la civiltà, nel bene e nel male, c’è, ce l’abbiamo e dobbiamo tenercela!
Stesso discorso per coloro che cercano di fermare l’orrore della vivisezione, che altro non è che tortura reiterata su persone animali innocenti, che non possono dire nulla ai loro aguzzini. Non possono fare i nomi dei loro complici, perché di complici non ne hanno. Non possono rivelare segreti di potenze straniere, perché segreti non ne hanno. Non possono rivelare particolari di armi, depositi di munizioni o piani strategici, perché non sono semplicemente in possesso di tali informazioni. E, ciò nonostante, vengono sistematicamente torturati.
Chi vuole liberare tali vittime incolpevoli dalle grinfie di sadici carnefici viene fatto passare per malvagio. Se poi commette qualche infrazione, come arrampicarsi sul tetto di un’azienda, passa dalla parte del torto e arrivano i carabinieri a mettere le cose a posto.
Potrei capire che l’irruzione illegale di animalisti sul tetto o dentro l’allevamento venga condannata dall’opinione pubblica se si trattasse di roditori, ma qui siamo in presenza del migliore amico dell’uomo, cosa che dovrebbe far accapponare la pelle a milioni di italiani e dovrebbe portare un numero considerevole di persone ad opporsi alla violenza commessa ai danni dei cani.
Ma non avviene.
La gente scende in piazza per il proprio particolare, per la pensione ridotta, per il posto di lavoro perduto, per i tagli alla scuola, ma mai nessuno che protesti e si arrabbi per la violenza commessa ai danni delle bestie. O meglio, a farlo sono sempre pochi e ininfluenti individui, ghettizzati e, nel peggiore dei casi, classificati come fanatici o, nel migliore, esagerati. A battersi per un ideale di giustizia sono sempre i soliti quattro gatti. E non li calcola nessuno.
Forse ci sarebbe bisogno di un ribaltamento dei valori, Chiesa Cattolica permettendo, cioè cominciare a considerare le ingiustizie fin dalla loro gestazione e nascita. Cominciare, si licet parva componere magnis, dalle piccole cose, in alto così in basso, come insegna la tavola Smeraldina [14], per poter ottenere giustizia nelle grandi, ammesso e non concesso che dare giustizia agli uomini sia cosa più grande che dare giustizia agli animali.
Trascurati come sono stati per secoli, gli animali sono l’ago della bilancia dell’etica, la nuova frontiera che da troppi secoli è stabilmente inchiodata al ruolo di “nuova frontiera”, in uno scenario di violenza normalizzata che, partendo da loro, finisce per colpire anche gli esseri umani, da altri esseri umani reificati e ridotti allo status di bestie. Processo ben noto agli psicologi.
L’argomento di cui sto parlando, ovvero i lati positivi della violenza, sembra fatto apposta per turbare gli animi della gente, abituata com’è a vedere le cose in un’ottica manicheistica. Le stesse notizie che in questi giorni vengono fornite dai telegiornali, che non sono semplici strumenti di trasmissione d’informazioni, ma hanno anche il potere di plagiare gli ascoltatori, sottolineano insistentemente l’aspetto manicheo dei fatti di Roma, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. E’ una delle caratteristiche riprovevoli della propaganda.
Anche coloro che dovrebbero possedere i requisiti intellettuali per riconoscere la complessità del reale, sono tentati di condannare in toto la violenza, senza concederle la benché minima attenuante. Creò infatti molto turbamento, e infinite discussioni, il gesto di un pacifista tedesco che, negli anni Ottanta in cui nascevano liste Verdi un po’ in tutta Europa, gettò addosso a un generale di passaggio una secchiata di vernice rossa, colore altamente simbolico che stava a raffigurare il sangue delle sue vittime. Dopo quella volta si optò per le più comiche torte in faccia, ma ho il sospetto che, incontrata la disapprovazione dei Gruenen, quell’attivista sia stato espulso. Un po’ quello che è successo sabato, a Roma, a quel tipo che ha distrutto la statua in gesso della Madonna e che se non si fosse dato alla fuga, gli altri manifestanti lo avrebbero riempito di botte.
In entrambi i casi, il pacifista della vernice rossa e l’anarchico iconoclasta, a mente fredda sappiamo che hanno fatto un bel gesto, poiché sia l’esercito che la Chiesa sono responsabili della morte di milioni di persone, mentre la Chiesa ha anche l’aggravante di aver tenuto nell’ignoranza un numero incalcolabile di fedeli. Sappiamo, razionalmente, che i veri colpevoli sono preti e militari, che meriterebbero trattamenti ben peggiori di una divisa macchiata e una statuetta infranta, eppure continuiamo a reprimere chi ha il coraggio di manifestare un vero, concreto e tangibile dissenso, senza per altro arrivare all’uccisione dei diretti interessati, preti e soldati. Può essere che dipenda dal plagio stesso che educatori e sacerdoti ci hanno somministrato fin dall’infanzia? E’ possibile che il perbenismo sia un’incrostazione psicologica di cui non riusciamo proprio a disfarcene?
La storia della statua distrutta e calpestata, gesto tra l’altro paradigmatico di tutte le rivolte, mi fa venire in mente l’esempio del gufo: se rubo una statuetta a forma di gufo, finisco in prigione, ma se uccido e faccio imbalsamare un gufo in carne e piume, mi danno solo una multa. Il ribaltamento dei valori è a monte ed è già istituzionalizzato, ma in quest’ultimo caso c’entra anche il principio dell’inviolabilità della proprietà privata.
Sull’inestricabilità del bene e del male e sull’impossibilità di tenerli separati, come già aveva notato il Manzoni [15], si può citare un piccolo aneddoto. Spesso, per indicare una persona d’animo buono si dice che non farebbe del male a una mosca, ma quella mosca potrebbe essere responsabile della diffusione di una malattia che ucciderà milioni di persone. Anche se ad uccidere milioni di persone sono le pandemie immesse nell’ambiente da criminali in camice bianco, l’esempio resta calzante.
In conclusione, ritengo che in certi casi, per esempio per impedire un male peggiore, la violenza sia doveroso usarla, altrimenti dobbiamo rivedere tutta la storia d’Europa degli ultimi settanta anni, in riferimento alla lotta partigiana; dobbiamo condannare totalmente la pena di morte (e qui magari se ne può discutere) e dobbiamo rifiutare il messaggio di film come “Rambo II”, in cui l’eroe riesce a liberare alcuni prigionieri americani in Vietnam, contravvenendo agli ordini dei suoi stessi superiori.
Per non diventare schizofrenici dovremmo chiarire una volta per tutte se liberare animali o ex soldati prigionieri sia opera meritoria o una condannabile violazione della legalità. Io opto per la prima, anche a costo di rendere l’occhio di cui parlava Gandhi un po’ miope. Meglio un mondo miope che lasciar correre i soprusi ai danni delle vittime. Forse, come dice Jacopo Castellini, la violenza genera altra violenza o forse rimette le cose a posto e rende giustizia a chi ha subito un torto. Almeno per un po’.


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