Quando ho chiesto al mio amico Mauro
se mi aiutava con la traduzione dal friulano all’italiano del racconto
che lui stesso mi aveva passato, mi ha detto che lo avrebbe fatto solo
se avessi pubblicato prima il testo originale nella lingua dell’autore, Don Antonio Bellina, e poi la traduzione.
Gli
ho risposto che non potevo impiegare il doppio del tempo per lo stesso
articolo, perché se anche io non ho tre figli, una moglie, un lavoro e
mille altri impegni come lui, devo anch’io combattere con la mancanza di
tempo come tutti i comuni mortali.
Più di dire che Antonio Bellina è stato un prete scomodo, ha tradotto la Bibbia in friulano insieme a Don Francesco Placereani,
ha scritto più di trenta libri tra cui “La fabbrica dei preti”, messo
all’indice dalla Chiesa, e ha collaborato con il settimanale “La vita cattolica”, non so cosa potrei aggiungere.
Il
fatto che io riporti qui un episodio da lui raccolto e descritto sul
calendario del 2011, da cui Mauro ha strappato la pagina di luglio, è
già un rendergli omaggio, un riconoscimento della sua sensibilità di
sacerdote “diverso”, contro corrente e non allineato, ma soprattutto
amante della sua terra e delle sue radici.
In vita è stato
osteggiato ma durante il suo funerale tutti si sono sperticati in lodi,
come avviene sempre e anche per i laici. Durante le esequie c’era chi in suo onore sventolava la bandiera friulana con l’aquila su fondo blu, ma sul Messaggero Veneto
quelle foto non sono apparse, perché troppo compromettenti, a riprova
che mass-media di regine e Chiesa cattolica ufficiale sono servi e
maggiordomi del potere costituito di stampo massonico che domina
occultamente il mondo.
Non voglio arrivare al punto di sospettare
che Don Antonio Bellina sia stato eliminato dalle autorità
ecclesiastiche contro cui si era scagliato, come è avvenuto a un’altra
guida religiosa, Osho Rajneesh,
ma la sua vita è comunque finita troppo presto, a causa dei reni che
non funzionavano. Se con Pasolini sono intervenuti brutalmente, con Don
Bellina hanno lasciato fare alla natura. Entrambi intellettuali scomodi,
benché il primo sia più famoso del secondo.
Ecco dunque una
storia vera, accaduta da qualche parte in Friuli, in un’epoca
imprecisata del Novecento. Un’ultima avvertenza: munitevi di fazzoletti
di carta, perché ne avrete bisogno.
“A
proposito di uno che non può far arrivare al destinatario alcun
messaggio, tranne qualche segnale capito solo da quelli che lo
frequentano e che in ogni caso non può essere una comunicazione
esauriente di un’anima diventata più sensibile a causa di menomazione e
infermità, mi ricordo di Santo da Vuiche, chiamato anche il muto di
Rivalpo per differenziarlo dal muto di Valle. L’ho sotterrato l’undici
dicembre del 1975, giusto cinque mesi prima del terremoto che lo avrebbe
assassinato nell’anima. Santo era nato sano come tutti, ma sui cinque
anni lo aveva agguantato la meningite e il medico aveva detto a sua
madre: “Luigia, pregate il Signore che se lo prenda, ché altrimenti gli
resta per tutta la vita una grave menomazione dell’udito”.
Difatti,
le orecchie gli hanno spurgato continuamente e non ha più sentito una
parola, una voce. Da lì il suo chiudersi nei confronti della società,
soprattutto nel suo aspetto più formale e repressivo, come guardiani,
carabinieri, medici e in genere tutte le persone in divisa. Compresi i
preti. Sopportava me perché mi vedeva diverso dagli altri e frequentavo
la casa essendo amico di sua sorella. Chiuso nei confronti degli uomini,
diventava matto per gli animali, che trattava con un’umanità
straordinaria.
Un anno aveva portato a casa un cagnetto. Una cosa
minuta, giocattolona, di quei bastardini che ti levano l’anima ogni
volta che ti leccano. Erano sempre insieme, di giorno e di notte.
Infatti, lo teneva così stretto vicino a sé che a volte il cagnetto gli
scappava e andava ad acquattarsi presso la cuccia. Dov’era uno era anche
l’altro e Santo viveva come in sogno. Un sogno troncato dalla malvagità
scandalosa della gente. Della gente del paese, della gente che aveva il
potere sul paese e dunque di quelli che passavano per essere
autorevoli, uomini importanti, cattolici. Santo, bontà loro, era
iscritto all’E.C.A. (Ente Comunale Assistenza), e a Pasqua e a Natale, quando volevano e ne avevano, gli passavano un buono per fare la spesa.
Chi è iscritto all’E.C.A. è povero. Ma un povero non può permettersi un cane di lusso. E un cane che non è né da caccia, né da guardia è di lusso e dunque bisognava scegliere: o il cane o l’E.C.A. Qualcuno aveva fatto la spia ad Arta [comune della Carnia dove aveva sede l’ente benefico. N.d.R.].
Dal
Comune arrivò la risposta: o pagare la tassa per i cani o far fuori il
cane. Per pagarla bisognava avere soldi e se si aveva i soldi per il
cane di lusso non si poteva domandare la carità al Comune. Così [i suoi
familiari. N.d.R.] hanno ucciso il cane. E hanno avuto l’umanità di
raccontare al povero Santo la frottola che glielo avevano portato via i
cacciatori. Non so se lui l’ha bevuta.
So – così me l’hanno
raccontata – che è stato fuori di casa per tre giorni, girando per i
boschi come Caino e gridando con quella voce che non aveva nulla di
cristiano. Poi tornò a casa sfinito, disperato e pieno di fame.
Al
suo funerale gli ho domandato perdono a nome di tutto il paese e gli ho
augurato di trovare, là dov’era diretto, un mondo meno bastardo di
quello che lasciava. Mi piacerebbe che Dio facesse il miracolo di
regalargli una nidiata di cagnetti, di correre urlando a piena voce e di
rotolarsi sui prati del cielo fino a cadere sfinito di contentezza e i
cagnetti a saltargli addosso asciugandogli il sudore, loro che, a differenza degli uomini, avevano tanto cuore da leccare le piaghe anche al beato Lazzaro.
Ma
so che sto vaneggiando. Forse è troppo tardi, o forse non è niente, dal
momento che non sappiamo. E se anche ci fosse qualcosa [nell’Aldilà.
N.d.R.] e fosse così, chi trova una ragione per le ferite mortali che
hanno lacerato la sua anima?
Mi sono chiesto tante volte cosa
diceva Santo al suo cagnetto quando andavano in giro per i prati o
stavano ore e ore seduti sotto un albero. Lui non parlava e dunque non
diceva parola ma tutto in lui parlava e sicuramente il cane capiva il
suo linguaggio. Mi sono domandato anche cosa ha detto in quei tre giorni
in cui è stato fuori al freddo e al buio del bosco, quali maledizioni
saltavano fuori dalla sua anima accoltellata; quali lamenti uscivano dal
suo cuore insanguinato; quali imprecazioni e bestemmie contro Dio, se
credeva in un Dio; quali maledizioni contro coloro che avevano commesso
il delitto di portargli via la sua creatura.
Se si potessero
scrivere tutte queste parole, quale tragedia ne verrebbe fuori? Perché
di tragedia si tratta, dal momento che il dolore non si misura da quanto
vale ciò che si perde, ma da quanto ci fa male al cuore a perderlo.
E per uno che non ha niente, la morte o la sparizione di un cagnetto è paragonabile alla fine del mondo”.
Don
Bellina, riportando quel lontano episodio nel suo “Il timp des domandis
– Lis peraulis tasudis”, dimostra di essere stato un prete ricco di
sensibilità e qualità morali, ma non va taciuto che rimane pur sempre
confinato nella visione antropocentrica tipica della religione giudaico-cristiana.
Ciò
che va condannata, a suo dire, è la cattiveria della gente ai danni di
un loro compaesano sfortunato, mentre la cattiveria di aver ucciso una
persona animale resta in ombra e passa in secondo piano.
Anzi, se
in quelle poche volte che l’ho incontrato avessi parlato a Don Bellina
di “persone animali”, sicuramente mi avrebbe detto che non bisogna
esagerare e che gli animali devono stare al loro posto. Il posto
assegnato loro dagli uomini.
Magari me lo avrebbe detto con molto
tatto e gentilezza, come solo sanno fare i preti, ma il discorso non
cambia. Tutto il suo sdegno, nel racconto, è focalizzato sulle
sofferenze di Santo, il sordomuto del villaggio. Nessuna parola di
condanna per l’assassinio del cane, di cui infatti non viene riportato
neanche il nome.
Era solo un cane, come ce ne sono tanti. Su
tutto, mestamente, aleggia nostra signora Morte, quasi un’ossessione per
il popolo friulano tendenzialmente triste e pessimista.
Lo si
percepisce anche in questo detto: “Muart jo, muart un cjan a Buje, dopo
tre diis nissun a dis nuje”.
Morto io, morto un cane a Buja, dopo tre giorni nessuno dice niente”.
Pre Toni Beline (detto in friulano) resta una grande anima. Grande i quanto uomo, non necessariamente in quanto prete. Il primo da valore al secondo, non viceversa. Era un uomo libero e credo abbia influenzato moltissimo il mio modo di vedere il mondo, il scegliere da che parte stare. La sua è stata una scelta precisa, quella di scrivere in friulano, la lingua della povera gente (non una lingua povera), con la quale voleva dimostrare la pari dignità alle altre lingue e culture, parlando di filosofia, storia, etica etc. Non solo di barzellette, come di solito viene abbinato il friulano. Anche il tema degli animali segue questa linea: la consapevolezza degli ultimi, non solo uomini. Non ho trovato molti sacerdoti con tale sensibilità. Invito, chi legge, a provare a conoscere i suoi scritti non lasciandosi frenare dalla lingua, ma prendendo l'occasione per assaggiare una cultura, una lingua poco conosciuta, ma molto ricca d'espressione e di sentimento. Ricordo che per te, Roberto, pre Toni aveva perso parecchi abbonati alla "Patrie dal Friûl" di cui era direttore e dove tu scrivevi, perché credeva che fosse importante dare spazio alle idee, anche a quelle più radicali. Non è stato un uomo comune. Mandi a ducj
RispondiEliminaCitazione:
Elimina"pre Toni aveva perso parecchi abbonati alla "Patrie dal Friûl" di cui era direttore e dove tu scrivevi".
Beh, adesso non esageriamo!
Ricordo di aver avuto per le mani una lettera di protesta, per le cose che avevo scritto, firmata da tre persone. Di altri non so.
Ciao e grazie per l'intervento.
altro che fazzoletti di carta :-( pensavo di aver pianto tutte le mie lacrime dopo aver letto Michael cane da circo di Jack London, e invece... la dolcezza di certe persone come Santo mi riconcilia (un pò)col genere umano, poi penso al suo atroce dolore, che gli è stato inflitto da altri umani e torno peggio di prima :-/
RispondiEliminaDiciamo che le cose sono un po' cambiate, rispetto agli anni Sessanta. E poi quelle erano zone di montagna, notoriamente più zotiche delle zone di pianura, dal punto di vista intellettuale e culturale.
EliminaAdesso si scatena un'altra diatriba tra me e te come quella sui gay piagnoni....
Ohibò!
no, se mi dici che le cose lì sono migliorate son contenta, mica è colpa tua se i montagnoli erano zotici.
RispondiEliminacomunque conoscevo un bambino, che aveva i genitori tossicodipendenti e quindi lo tenevano i nonni, vecchi e inadatti, così lui stava in giro tutto il giorno, a volte anche la sera. Amava gli animali più di qualunque altra cosa, e il suo più grande desiderio era avere un cane, perciò quando aveva l'enorme fortuna (secondo lui :-) di trovare un cagnetto randagio se lo portava a casa. Poi, regolarmente, dopo qualche giorno i nonni o chi per loro faceva sparire il cane e a lui dicevano che qualcuno l'aveva rubato. Lui, anima candida non sospettava di nulla, un giorno mi disse che era sfortunato, perchè trovava sempre cani così belli che tutti li volevano e glieli rubavano. Che tenerezza quel bimbo, mi chiedeva sempre se gli animali andavano in paradiso, eppure in famiglia nessuno mai gli aveva insegnato ad amarli
Elsa Morante: "Il mondo salvato dai ragazzini".
Elimina(non l'ho letto).
Le cose sono cambiate, almeno qui da me, perché ai miei tempi organizzavo manifestazioni a cui venivano al massimo una ventina di persone.
Oggi siamo decine e decine di attivisti, tutti volti nuovi, età media trent'anni, anche se i veterani sono ancora quasi tutti vivi, ma in quiescienza.
..."in quiescienza" :-)
RispondiEliminaa proposito di libri a tema, hai mai letto Le voci del mondo di Robert Schneider? è veramente bellissimo, direi imperdibile.
In quiescienza nel senso che si occupano di canili e gattili, oppure hanno fatto delle loro abitazioni canili e gattili, cioè si sono portati il lavoro a casa.
EliminaPurtroppo, a conferma di quanto sia vasto l'universo, non ho mai sentito nominare né l'autore, né il titolo da te citati.
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