C’è
una questione essenziale che
sembra sfuggire ai protagonisti delle polemiche sulla presunta individuazione
dell’assassino di Yara, e cioè che il suo eventuale riconoscimento parte da una
procedura di “analisi di massa” del Dna (ben diciottomila i campioni raccolti)
dall’assai dubbio profilo costituzionale. E’ di tutta evidenza che il prelievo
di materiale biologico afferisce direttamente alle libertà fondamentali dell’uomo
e all’inviolabilità della persona. L’articolo 13 della Costituzione, nel
proclamare l’inviolabilità della libertà personale e del diritto alla
riservatezza dell’individuo, fissa forti paletti procedurali per l’esercizio
dei poteri di coercizione da parte della pubblica autorità. Tra questi c’è il
principio di motivazione. Anche la richiesta di una meno invasiva “intercettazione
telefonica” deve essere giustificata dagli investigatori con motivazioni
esplicite e specifiche e non può essere generica o a vasto raggio. Del resto,
anche nelle altre vicende in cui la prova regina è stata costituita dall’esame
del Dna, sia nei casi di condanna (i delitti Claps e Filo della Torre) sia nei
casi di assoluzione (l’omicidio di Garlasco e l’appello di Perugia per
Meredith), l’esame è stato effettuato dopo che i sospetti erano stati
individuati e circoscritti sulla base di altri riscontri investigativi e non
grazie a un “rastrellamento” in una vasta e indefinita platea di potenziali
colpevoli.
Ora
anche se, contro ogni legge statistica, vogliamo ipotizzare che tutti e
diciottomila i prelievi siano stati effettuati rispettando la procedura di
acquisizione del libero consenso del soggetto, è il meccanismo stesso dell’operazione,
effettuata in un clima di forte tensione emotiva della comunità, che mette in
discussione l’essenziale presupposto della libera scelta e quindi, in ultima
istanza, limita fortemente il diritto alla difesa del sospettato.
Anche
in altre circostanze di emergenza giudiziaria e di grave allarme sociale, l’Italia
ha tenuto duro non cedendo alle sirene del panottico. Le richieste di
rilevazione di massa delle impronte digitali di determinati campioni della
popolazione sono state respinte al mittente con l’opportuna combinazione di
sdegno e sberleffi. Non vorremmo che, capitalizzando lo stato d’animo
collettivo di forte empatia con la giovane vittima e i suoi familiari, passasse
il principio che l’efficacia del risultato raggiunto (e qui non solleveremo
tutti i dubbi opportuni sull’effettivo valore probatorio nel caso specifico)
consente di fare strame di elementari e fondamentali principi del diritto. Al
danno del pericoloso precedente si aggiungerebbe così la beffa di un micidiale
passo in avanti nello spostamento del luogo del rito processuale dalle aule di
giustizia (con tutte le garanzie processuali per l’acquisizione della prova)
agli studi televisivi, nuovi santuari del barnum mediatico.
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