Fonte:
Identità.com
Peter
Hitchens, ex radicale di sinistra che oggi ha aperto gli occhi, scrive sul Mail
on Sunday. La sua è una confessione e una denuncia:
Come io sono in parte responsabile per l'immigrazione di massa.
Quando
ero un rivoluzionario marxista, eravamo tutti a favore di più immigrazione
possibile.
Non
perché ci piacessero gli immigrati, ma perché non ci piaceva come era la società
britannica. Abbiamo visto gli immigrati – da qualsiasi luogo – come
alleati contro la società conservatrice che il nostro paese era ancora alla
fine degli anni Sessanta. Volevamo usarli come grimaldello.
Inoltre,
ci piaceva sentirci ‘superiori’ alle persone comuni – di solito delle zone più
povere della Gran Bretagna – che videro i loro quartieri improvvisamente
trasformati in presunte “comunità vibranti”.
Se
avevano il coraggio di esprimere le obiezioni più miti, subito li accusavamo di
razzismo. Era facile. Noi
studenti rivoluzionari non vivevamo in tali aree “multietniche” (ma venivamo,
per quanto ho potuto vedere, per lo più dalle zone ricche e le parti più belle
di Londra).
Potevamo
vivere in luoghi ‘vibranti’ per alcuni (di solito squallidi) anni, in mezzo a
degrado e bidoni traboccanti.
Ma
noi lo facemmo come dei vagabondi senza responsabilità e in modo transitorio, non
avevamo figli. Non come i proprietari di abitazioni, o come genitori di bambini
in età scolare, o come gli anziani che sperano in un po’ di serenità alla fine
delle loro vite.
Quando
ci laureammo e cominciammo a guadagnare soldi seri, in genere ci dirigemmo
verso le costose enclave di
Londra e diventammo molto esigenti su dove e con chi i nostri bambini andavano
a scuola, una scelta che felicemente abbiamo negato ai poveri delle città,
quelli che abbiamo sbeffeggiato come “razzisti”.
Ci
interessava e ci siamo curati della grande rivoluzione silenziosa che già allora
cominciava a trasformare la vita dei poveri inglesi?
No,
per noi significava che il patriottismo e la tradizione potevano sempre essere
derisi come ‘razzisti’.
E
significava anche servi a basso costo per i ricchi della nuova classe media
privilegiata, per la prima volta dal 1939, così come ristoranti a buon mercato
e – in seguito – costruttori a buon mercato e idraulici che lavoravano in nero.
Non
erano i nostri salari che erano depressi dall’immigrazione, o il nostro lavoro
che finiva fuori mercato. Gli immigrati non facevano – e non fanno – il
genere di lavoro che facevamo noi.
Non
erano una minaccia per noi. Ma per la gente normale.
L’unica
minaccia per noi poteva venire dai danneggiati, dal popolo britannico, ma
potemmo sempre soffocare le loro proteste, suggerendo che erano ‘moderni
fascisti’.
Ho
imparato da ciò che ipocrita snob e persona arrogante ero (e la maggior parte
dei miei compagni rivoluzionari erano).
Ho
visto posti che ho conosciuto e nei quali mi sentivo a casa, completamente
cambiati nel giro di pochi anni.
Ho
immaginato come sarebbe stato crescere in uno di quei posti, bloccato in
un quartiere squallido come un inglese qualunque, strade strette dove i miei
vicini parlavano una lingua diversa. E a poco a poco ho iniziato a diventare un
solitario, traballante straniero in un mondo che conoscevo, ma che non
riconoscevo più.
Mi
sono sentito profondamente, irrimediabilmente triste per quello che ho fatto e
per non aver detto nulla in difesa di coloro le cui vite sono state stravolte,
senza che fosse loro mai stato chiesto il permesso, e che sono stati avvertiti
in modo molto chiaro che, se si fossero lamentati, sarebbero stati disprezzati
e reietti. Definiti “razzisti”.
Sembra
l’Italia di oggi, dove se ti ribelli, sei “razzista”. Dove, o sei a favore
della società multietnica, o sei “fuorigioco”, sei senza voce: perché chi e
quando parla lo controllano loro. E se qualcuno rompe il monopolio, deve essere
eliminato.
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