sabato 7 ottobre 2017

Il tribalismo islamico è una minaccia per la libertà di tutti


Fonte: Strade on line

L’Islam è compatibile con la libertà individuale? La domanda è di interesse, per diverse ragioni. La prima è che consente di riformulare in termini oggettivi il problema della convivenza interna (all’interno dell’Islam, e in particolare nel mondo arabo) ed esterna (con gli occidentali, con altre religioni, con gli atei o gli indifferenti) alle comunità musulmane. Posto in questi termini, infatti, l’interrogativo costringe ad affrontare - con argomentazioni che possono essere verificate sui fatti - il tema concreto di come l'Islam sia conciliabile, sotto il profilo giuridico e istituzionale, con la libertà e con gli ordinamenti che la rendono possibile.
 Che la questione sia tangibile e di attualità non vi sono dubbi. In Gran Bretagna è oggetto ormai di intervento governativo e parlamentare: lo scorso maggio, l’allora ministro dell’interno (e attuale primo ministro) Theresa May ha avviato un’indagine sull’applicazione della sharia nel territorio britannico e un’indagine conoscitiva è stata avviata dalla commissione parlamentare per gli Affari interni della Camera dei Comuni. Nella culla dell’Islam sunnita, l’Arabia Saudita, per contro, in questi mesi autunnali è in corso una campagna senza precedenti per abolire l’istituto della custodia maschile nei confronti delle donne: si tratterebbe di un passo in avanti verso una apertura di quel sistema politico e religioso verso maggiori libertà.


Chiedersi se l’Islam sia compatibile con la libertà è poi importante per capire cosa sta accadendo in Medio Oriente. Gli esiti delle violenze in corso in Siria, Iraq, Libia, Yemen, e della caotica ricerca di un ordine politico in quell’area, nel quadro del confronto secolare tra Islam sciita e arabo-sunnita, saranno senz’altro legati all’affermazione di un costituzionalismo finalizzato alla libertà individuale, compatibile con quelle dottrine. Finché ciò non accadrà, è assai probabile che quell’area continuerà ad essere teatro di scontri cruenti e di violenze arbitrarie perpetrate da organizzazioni di ispirazione religiosa.



Il termine “libertà” è, nondimeno, soggetto ad abusi. Spesso è utilizzato in modo ambiguo per indicare un presunto valore culturale o principio etico, magari specifico di questa o quella “civiltà”. Tuttavia, se ne può parlare in modo più preciso facendo riferimento alla condizione, ben descritta da Friedrich Von Hayek (The Constitution of Liberty), di assenza di coercizione nelle scelte private delle persone.



In tale accezione la libertà individuale ha le caratteristiche, piuttosto, di un bene scarso, e dunque economico, perfino commerciabile, come sanno bene i trafficanti di schiavi o i sequestratori. È possibile quindi valutarne la disponibilità in qualsiasi organizzazione sociale, distinguendo comunità tendenti al tribalismo o, nella loro versione massificata, al totalitarismo in cui la libertà è assente, da quelle inclini al modello della società plurale e aperta, non pianificata, prodotto della spontanea e volontaria interazione tra milioni di individui. Va da sé che le prime tendono anche all’uso della violenza e della repressione per limitare o impedire le scelte individuali e ridurre le persone all’obbedienza. 



Questa distinzione chiarisce anche molti problemi inerenti i rapporti di convivenza tra comunità portatrici di valori e tradizioni diverse. Nelle società tendenti al tribalismo infatti si pone il problema dell’integrazione delle minoranze e del loro status giuridico collettivo. Il pluralismo è invece intrinseco alla società aperta, fondata sulla libertà individuale: l’unico requisito per avere pieno diritto di cittadinanza è l’accettazione del principio secondo cui la conoscenza umana è per definizione fallibile, e a nessuno - singolo o gruppo - può essere riconosciuta un’autorità assoluta sugli altri in nome di qualche verità rivelata. Per vivere liberamente dobbiamo, in sostanza, rassegnarci all’idea che gli altri possano sollevare obiezioni sulle nostre convinzioni, oppure ignorarle o considerarle irrilevanti.



Gli ordinamenti delle democrazie occidentali hanno istituzionalizzato questa fallibilità della conoscenza, traducendola in meccanismi che limitano il potere dei decisori pubblici. Si sono così create, in alcuni paesi, le condizioni per il superamento del tribalismo verso forme di convivenza libere.

 In questo processo, è emerso però il problema dello status delle religioni – non solo dell’Islam – che stabiliscono invece dogmi totalizzanti. Come preservarli nel contesto di una società fondata sulla possibilità della libera indagine critica e di un dibattito pubblico senza restrizioni? La risposta che ha dato il Cristianesimo a questa sfida è stata, nella versione riformata, l’aver ridotto la religione a una faccenda strettamente privata e personale. Nel Cattolicesimo si è invece imboccata, gradualmente e tra varie peripezie, la strada più macchinosa della separazione tra Stato e Chiesa, che consente comunque un ragionevole rispetto delle condizioni che garantiscono la libertà.



Un aspetto fondamentale di queste soluzioni è che entrambe sono state, probabilmente, rese possibili da un preciso messaggio giuridico, contenuto nel precetto evangelico: “Date a Dio ciò che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”. Senza questa fondamentale separazione “costituzionale” tra affari di fede e affari secolari, non sarebbe stato probabilmente possibile conciliare i dogmi della religione con le esigenze della libertà.



Un’analoga distinzione è possibile anche nell’Islam? Secondo il poeta siriano Adonis è questo il problema fondamentale che l’Islam non ha ancora risolto. “Bisogna elaborare una nuova lettura - afferma nel libro “Violenza e Islam” (2015) - che distingua in modo profondo ed essenziale la pratica religiosa individuale dalla dimensione collettiva e sociale. Senza questa lettura innovativa e moderna, l’islam resterà prigioniero della violenza e del potere politico”.



In tutte le versioni - sunnita, sciita, più o meno conservatrici, almeno agli occhi di un osservatore esterno – ad oggi l’Islam sembra continuare scontrarsi con un insormontabile ostacolo logico: ridurre la fede a un fatto privato, o pubblico ma solo “spirituale”, senza applicare una qualche versione della sharia, sembra implicare la negazione radicale di tutta la dottrina religiosa nel suo complesso. Milioni di musulmani hanno trovato ovviamente un compromesso tra doveri dottrinari e libertà, ma, finché non sarà data una risposta giuridica e istituzionale definitiva a questo interrogativo, l’Islam correrà il rischio di tradursi in progetti politici liberticidi. Affrontare questo problema, non dovrebbe servire ricordarlo, è ora più urgente che mai. A partire dallo scoppiare delle primavere arabe, nel 2011, in Medio Oriente è riesploso con una violenza straordinaria il conflitto tra sunniti e sciiti: nessuna delle due fazioni sembra andare in direzione di una interpretazione liberale delle proprie dottrine.



Sul piano politico, molti importanti paesi a maggioranza islamica riconoscono la sharia e ne applicano in tutto o in parte le prescrizioni, a partire dall’Iran sciita e dall’Arabia Saudita. In Turchia, dopo le epurazioni seguite al tentativo di colpo di stato della scorsa estate, vi è il rischio della progressiva sostituzione degli ordinamenti liberali con altri che incorporano i principi della legge islamica.




Si tratta di paesi molto diversi per storia e istituzioni, ma l’effetto dell’islamizzazione dei loro ordinamenti è quello tipico di qualsiasi regime totalitario: la riduzione delle libertà personali, la discriminazione arbitraria di determinate categorie di persone - senz’altro le donne, che vivono in questi paesi una condizione simile alla schiavitù - l’uso della tortura, del ricatto, del sequestro di persona e dell’assassinio di stato per reprimere ogni forma di pluralismo di pensiero o di comportamento.

 Nei paesi occidentali, la progressiva diffusione di comunità che applicano informalmente la sharia è ormai un fatto, e negarlo o relegarlo, con qualche esercizio di sociologia spicciola, all’effetto di fenomeni di disagio sociale, di insofferenza giovanile o di alienazione da globalizzazione ricorda le forme di negazionismo nei confronti, per dire, del riscaldamento globale.




Si tende ad affrontare la questione islamica solo sull’onda dell’emozione mediatica generata da eventi drammatici, come gli attentati terroristici, il cui impatto è poi tutto sommato limitato, col risultato di trasformare un dibattito su un problema grave e urgente in uno scontro tra tifoserie. Sarebbe opportuno essere consapevoli che l’espansione di forme di tribalismo islamico è una minaccia pericolosa per la libertà di tutti, ovviamente in primo luogo per gli stessi musulmani, e in particolare per le donne musulmane, che più di tutti ne sperimentano sulla propria pelle la crudeltà e ferocia.

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