Fonte: Strade on line
L’Islam è compatibile
con la libertà individuale? La domanda è di interesse, per diverse
ragioni. La prima è che consente di riformulare in termini oggettivi
il problema della convivenza interna (all’interno dell’Islam, e
in particolare nel mondo arabo) ed esterna (con gli occidentali, con
altre religioni, con gli atei o gli indifferenti) alle comunità
musulmane. Posto in questi termini,
infatti, l’interrogativo costringe ad affrontare - con
argomentazioni che possono essere verificate sui fatti - il tema
concreto di come
l'Islam sia conciliabile, sotto il profilo giuridico e istituzionale,
con la libertà e con gli ordinamenti che la rendono possibile.
Che la questione sia tangibile e
di attualità non vi sono dubbi. In Gran Bretagna è oggetto ormai di
intervento governativo e parlamentare: lo scorso maggio, l’allora
ministro dell’interno (e attuale primo ministro) Theresa May ha
avviato un’indagine sull’applicazione della sharia nel
territorio britannico e un’indagine conoscitiva è stata avviata
dalla commissione parlamentare per gli Affari interni della Camera
dei Comuni. Nella culla dell’Islam sunnita, l’Arabia Saudita, per
contro, in questi mesi autunnali è in corso una campagna senza
precedenti per abolire l’istituto della custodia maschile nei
confronti delle donne: si tratterebbe di un passo in avanti verso una
apertura di quel sistema politico e religioso verso maggiori libertà.
Chiedersi se
l’Islam sia compatibile con la libertà è poi importante per
capire cosa sta accadendo in Medio Oriente.
Gli esiti delle violenze in corso in Siria, Iraq, Libia, Yemen, e
della caotica ricerca di un ordine politico in quell’area, nel
quadro del confronto secolare tra Islam sciita e arabo-sunnita,
saranno senz’altro legati all’affermazione di un
costituzionalismo finalizzato alla libertà individuale, compatibile
con quelle dottrine. Finché ciò non accadrà, è assai probabile
che quell’area continuerà ad essere teatro di scontri cruenti e di
violenze arbitrarie perpetrate da organizzazioni di ispirazione
religiosa.
Il termine “libertà” è,
nondimeno, soggetto ad abusi. Spesso è utilizzato in modo ambiguo
per indicare un presunto valore culturale o principio etico, magari
specifico di questa o quella “civiltà”. Tuttavia, se ne può
parlare in modo più preciso facendo riferimento alla condizione, ben
descritta da Friedrich Von Hayek (The
Constitution of Liberty),
di assenza di coercizione nelle scelte private delle persone.
In tale accezione la
libertà individuale ha le caratteristiche, piuttosto, di un bene
scarso, e dunque economico,
perfino commerciabile, come sanno bene i trafficanti di schiavi o i
sequestratori. È possibile quindi valutarne la disponibilità in
qualsiasi organizzazione sociale, distinguendo comunità tendenti al
tribalismo o, nella loro versione massificata, al totalitarismo in
cui la libertà è assente, da quelle inclini al modello della
società plurale e aperta, non pianificata, prodotto della spontanea
e volontaria interazione tra milioni di individui. Va da sé che le
prime tendono anche all’uso della violenza e della repressione per
limitare o impedire le scelte individuali e ridurre le persone
all’obbedienza.
Questa distinzione chiarisce
anche molti problemi inerenti i rapporti di convivenza tra comunità
portatrici di valori e tradizioni diverse. Nelle società tendenti al
tribalismo infatti si pone il problema dell’integrazione delle
minoranze e del loro status giuridico collettivo. Il
pluralismo è invece intrinseco alla società aperta, fondata sulla
libertà individuale:
l’unico requisito per avere pieno diritto di cittadinanza è
l’accettazione del principio secondo cui la conoscenza umana è per
definizione fallibile, e a nessuno - singolo o gruppo - può essere
riconosciuta un’autorità assoluta sugli altri in nome di qualche
verità rivelata. Per vivere liberamente dobbiamo, in sostanza,
rassegnarci all’idea che gli altri possano sollevare obiezioni
sulle nostre convinzioni, oppure ignorarle o considerarle
irrilevanti.
Gli ordinamenti delle
democrazie occidentali hanno istituzionalizzato questa fallibilità
della conoscenza, traducendola in meccanismi che limitano il potere
dei decisori pubblici.
Si sono così create, in alcuni paesi, le condizioni per il
superamento del tribalismo verso forme di convivenza libere.
In questo processo, è emerso
però il problema dello status
delle religioni – non solo dell’Islam – che stabiliscono invece
dogmi totalizzanti.
Come preservarli nel contesto di una società fondata sulla
possibilità della libera indagine critica e di un dibattito pubblico
senza restrizioni? La risposta che ha dato il Cristianesimo a questa
sfida è stata, nella versione riformata, l’aver ridotto la
religione a una faccenda strettamente privata e personale. Nel
Cattolicesimo si è invece imboccata, gradualmente e tra varie
peripezie, la strada più macchinosa della separazione tra Stato e
Chiesa, che consente comunque un ragionevole rispetto delle
condizioni che garantiscono la libertà.
Un aspetto fondamentale di
queste soluzioni è che entrambe sono state, probabilmente, rese
possibili da un preciso messaggio giuridico, contenuto nel precetto
evangelico: “Date
a Dio ciò che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”.
Senza questa fondamentale separazione “costituzionale” tra affari
di fede e affari secolari, non sarebbe stato probabilmente possibile
conciliare i dogmi della religione con le esigenze della libertà.
Un’analoga distinzione è possibile
anche nell’Islam? Secondo il poeta siriano Adonis è questo il
problema fondamentale che l’Islam non ha ancora risolto. “Bisogna
elaborare una nuova lettura - afferma nel libro “Violenza e Islam”
(2015) - che distingua in modo profondo ed essenziale la pratica
religiosa individuale dalla dimensione collettiva e sociale. Senza
questa lettura innovativa e moderna, l’islam resterà prigioniero
della violenza e del potere politico”.
In tutte le versioni - sunnita,
sciita, più o meno conservatrici, almeno agli occhi di un
osservatore esterno – ad oggi l’Islam sembra continuare
scontrarsi con un insormontabile ostacolo logico: ridurre
la fede a un fatto privato, o pubblico ma solo “spirituale”,
senza applicare una qualche versione della sharia,
sembra implicare la negazione radicale di tutta la dottrina religiosa
nel suo complesso.
Milioni di musulmani hanno trovato ovviamente un compromesso tra
doveri dottrinari e libertà, ma, finché non sarà data una risposta
giuridica e istituzionale definitiva a questo interrogativo, l’Islam
correrà il rischio di tradursi in progetti politici liberticidi. Affrontare questo problema, non
dovrebbe servire ricordarlo, è ora più urgente che mai. A partire
dallo scoppiare delle primavere arabe, nel 2011, in Medio Oriente è
riesploso con una violenza straordinaria il conflitto tra sunniti e
sciiti: nessuna delle due fazioni sembra andare in direzione di una
interpretazione liberale delle proprie dottrine.
Sul piano politico, molti
importanti paesi a maggioranza islamica riconoscono la sharia e
ne applicano in tutto o in parte le prescrizioni, a partire dall’Iran
sciita e dall’Arabia Saudita. In Turchia, dopo le epurazioni
seguite al tentativo di colpo di stato della scorsa estate, vi è il
rischio della progressiva sostituzione degli ordinamenti liberali con
altri che incorporano i principi della legge islamica.
Si tratta di paesi
molto diversi per storia e istituzioni, ma l’effetto
dell’islamizzazione dei loro ordinamenti è quello tipico di
qualsiasi regime totalitario:
la riduzione delle libertà personali, la discriminazione arbitraria
di determinate categorie di persone - senz’altro le donne, che
vivono in questi paesi una condizione simile alla schiavitù - l’uso
della tortura, del ricatto, del sequestro di persona e
dell’assassinio di stato per reprimere ogni forma di pluralismo di
pensiero o di comportamento.
Nei paesi occidentali, la
progressiva diffusione di comunità che applicano informalmente
la sharia è
ormai un fatto, e negarlo o relegarlo, con qualche esercizio di
sociologia spicciola, all’effetto di fenomeni di disagio sociale,
di insofferenza giovanile o di alienazione da globalizzazione ricorda
le forme di negazionismo nei confronti, per dire, del riscaldamento
globale.
Si tende ad affrontare la
questione islamica solo sull’onda dell’emozione mediatica
generata da eventi drammatici, come gli attentati terroristici, il
cui impatto è poi tutto sommato limitato, col risultato di
trasformare un dibattito su un problema grave e urgente in uno
scontro tra tifoserie. Sarebbe opportuno essere consapevoli
che l’espansione
di forme di tribalismo islamico è una minaccia pericolosa per la
libertà di tutti,
ovviamente in primo luogo per gli stessi musulmani, e in particolare
per le donne musulmane, che più di tutti ne sperimentano sulla
propria pelle la crudeltà e ferocia.
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