Fonte: Il Fatto Quotidiano
Se le denunce contenute
nel libro Una
scomoda verità pubblicato
nel 2008 dall’ex vicepresidente Usa Al Gore e l’omonimo
documentario sul cambiamento climatico premiato con due Oscar
hanno rappresentato uno shock per il pubblico, il libro Regime
alimentare (Chiarelettere)
del saggista Richard Oppenlander si spinge anche oltre. Non
solo perché spiega le ragioni per cui, secondo l’autore, smettere
di mangiare alimenti di origine animale sia l’unica
strada percorribile per salvare il pianeta e noi stessi, ma anche
perché individua nella pesca intensiva e negli allevamenti
industriali, conseguenza delle nostre “cattive” abitudini a
tavola, la prima causa di quello che definisce
il depauperamento globale. Le sue affermazioni hanno
scatenato una serie di polemiche, ma i suoi studi sono
stati fonte di ispirazione per Kip Andersen e Keegan
Kuhn, autori di Cowspiracy il
documentario prodotto da Leonardo Di Caprio, che racconta
dell’impatto della produzione di carne sul pianeta. Ma se mangiare
carne è sconsigliabile – suggerisce – perché “per
ogni bistecca o hamburger che ordiniamo c’è
mezzo ettaro di foresta pluviale che va in fumo”, cosa possiamo
ordinare al ristorante? L’opinione comune è che il pesce sia
più salutare per l’uomo e faccia meno male all’ambiente, ma nel
libro il saggista sfata questa convinzione: “L’uomo si nutre
sempre più di pesce senza informarsi sulla sua provenienza e
su cosa sia costato portarlo a tavola”.
Le conseguenze delle
nostre scelte Il libro parte dall’assunto che il nemico numero
uno dell’ambiente non siano le automobili o le grandi
fabbriche, ma il nostro regime alimentare. Che sta causando, neanche
troppo lentamente, un ‘depauperamento globale’ inteso come
perdita delle risorse primarie del pianeta e della salute
dell’uomo. Entrambe provocate dalle scelte alimentari che si
compiono ogni giorno, che sono la prima causa anche
del surriscaldamento globale. Basta pensare all’impatto su
quest’ultimo della distruzione di alberi che regolano la quantità
di ossigeno e anidride carbonica nell’atmosfera.
Ebbene, il 70% delle foreste pluviali è stato abbattuto e bruciato
per fare spazio agli allevamenti, che occupano oltre il 30% del
totale del suolo utilizzabile del pianeta. Non solo il consumo
di carne e latticini, ma anche quello di pesce. Nel
libro Regime
alimentare Richard
Oppenlander, da anni impegnato sui temi dell’alimentazione e
della sostenibilità ambientale, affronta il delicato tema della
potenza della lobby dell’industria zootecnica e offre al
lettore dati e analisi anche su fenomeni e settori di cui poco si
parla. Perché se è vero che ogni anno si allevano e si consumano
oltre 70 miliardi di animali, dieci volte la popolazione
mondiale, lo è altrettanto che nello stesso arco di tempo si pescano
tra i mille e i duemila miliardi di pesci. Una tendenza tutt’altro
che sostenibile.
Le minacce alla risorsa
acqua “Gli animali di cui ci cibiamo –
scrive Oppenlander – consumano le risorse
rinnovabili e non rinnovabili del pianeta, ossia cibo,
acqua, suolo, aria, carburanti fossili o altre fonti
energetiche che potrebbero essere destinate a noi”.
Negli Stati Uniti il 70 per cento di tutti
i cereali coltivati non viene usato per sfamare gli esseri
umani, ma gli animali allevati a scopo alimentare, quando
i cereali prodotti annualmente sarebbero più che
sufficienti per sradicare la fame nel mondo. L’acqua è danneggiata
in almeno tre modi diversi dal depauperamento globale: per la
diminuzione delle fonti e della disponibilità di acque dolci, per lo
sfruttamento degli oceani e della fauna ittica e per l’inquinamento
di entrambe queste risorse. Alcuni dati? “Se occorrono circa 150
litri di acqua per produrre un chilo di verdura, frutta, soia o
cereali, ce ne vogliono 15mila per produrre un solo chilo
di carne bovina”. La conseguenza è che “il 55%
delle risorse idriche disponibili al mondo è destinato
agli allevamenti”.
Che pesce mangiamo? Torniamo all’alternativa alla carne.
E al ristorante, per esempio, ordiniamo pesce. “Peccato che il
pesce contenga sia grassi saturi sia colesterolo” –
scrive Oppenlander,
sottolineando che “uno studio ancora in corso dell’Agenzia
statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha
evidenziato che negli Stati
Uniti il cento
per cento dei pesci di acqua dolce analizzati conteneva tracce
di mercurio e
che una buona percentuale di quelli di acqua
salata presentava
residui di metalli pesanti o bifenili policlorurati (PCB),
sostanze chimiche molto tossiche e cancerogene”.
Non solo. La tesi del libro è quella per cui non valga la pena
mangiare il pesce, anche perché a fronte della presenza di queste
sostanze “non c’è un solo pesce al mondo che contenga fibre,
antiossidanti o fitonutrienti,
che si trovano invece solo nei cibi di origine vegetale”. E
gli acidi
grassi omega 3? Ci
sono molte varietà di piante che possono offrirne una forma più
stabile e più facilmente sintetizzabile dall’organismo: “I semi
di piante come il lino e
la canapa,
a differenza del pesce,
sono ricchi di fibre,
non contengono colesterolo o
grassi saturi, né comportano un impoverimento degli oceani”. Già,
gli oceani. Perché come sostiene un recente rapporto del programma
delle Nazioni
Unite per
l’ambiente, il tasso di esaurimento delle risorse,
l’estinzione indotta dall’uomo e il degrado
ambientale degli
oceani sembrano ancor più accentuati di quanto avviene per il
suolo.
“Sia le zone costiere,
sia il mare aperto – spiega il saggista – sono
sottoposti a uno stress eccessivo a causa di pratiche per
nulla sostenibili come la sovrapesca e la pesca a
strascico, ma anche per l’inquinamento, il moltiplicarsi di zone
morte e l’infestazione da parte di specie invasive, tutti
fenomeni provocati dal desiderio irrefrenabile da parte dell’uomo
di mangiare quantità sempre maggiori di prodotti ittici”.
Secondo la Fao, il 70 per cento delle specie ittiche di
tutti gli oceani è sfruttato all’eccesso o esaurito.
L’Iucn (International
Union for Conservation of Nature)
classifica come minacciate o in via di estinzione 1081 specie, mentre
quattro milioni di pescherecci depredano i mari secondo
ritmi e quantitativi che eccedono di quasi tre volte la soglia
considerata sostenibile. Nel 2009 sono state pescate 106 milioni
di tonnellate di pesce. Una cifra record che non tiene neppure
conto delle centinaia di migliaia di tonnellate di esemplari che a
ogni battuta vengono catturati e poi rigettati in mare, morti o
agonizzanti. E Oppenlander sottolinea come un terzo di
tutto il pescato mondiale venga usato come mangime per
i sempre più cospicui allevamenti di bestiame.
La pesca e
l’inquinamento Quanto all’inquinamento delle risorse
idriche, gli
allevamenti vi contribuiscono attraverso l’impiego
di pesticidi e antibiotici,
ma anche provocando l’erosione del suolo e
la conseguente dispersione delle sostanze
provenienti
dalle pratiche
agricole che
finiscono nei corsi d’acqua provocandone la contaminazione. Nel
libro si ricorda come, “secondo le Nazioni Unite attualmente
esistono 150 zone morte negli oceani di tutto il mondo, causate
dall’eccesso di azoto dovuto a fertilizzanti e liquami”.
In realtà, secondo le stime di Fao,
Banca mondiale e National
Geographic Society queste
aree sono a quota 400. Una delle
più vaste al mondo si trova nel Golfo
del Messico ed
è ampia circa 23mila chilometri quadrati.
La consapevolezza,
inoltre, che molte zone di pesca si
stanno svuotando ha causato negli ultimi anni una proliferazione
degli allevamenti ittici “cui aziende e governi ricorrono sempre
più spesso per trovare un’alternativa all’impoverimento o
all’esaurimento degli stock delle dieci specie ittiche più
sfruttate”. Così l’acquacoltura, l’allevamento di pesci in
ambienti controllati, è cresciuta in modo esponenziale e oggi
contribuisce notevolmente all’inquinamento delle acque. In
primis perché
l’impiego di farine e oli
di pesce negli
allevamenti provoca una dispersione di
sostanze cancerogene. Oppenlander fa
l’esempio del salmone di
allevamento: “Contiene livelli di diossina significativamente
più alti rispetto al salmone
selvatico perché
si nutre costantemente di farina di pesce, che
contiene concentrazioni elevatissime
di contaminanti a
cui gli organismi marini di cui è composta sono stati esposti per
tutta la vita”. Ma l’acquacoltura contribuisce al degrado
dei mari anche
producendo ingenti quantità di rifiuti:
“Di solito vengono allevati fino a 90mila
pesci in
gabbie di trenta metri per trenta”. A fronte di tutto ciò ci sono
i sussidi che vengono concessi su scala mondiale all’industria
ittica: “Si calcola che riceva ogni anno 34 miliardi di dollari.
Solo i sussidi per
il combustibile, che incentivano la sovrapesca,
si attestano oggi sui 6 miliardi di dollari”.
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