Tratto da "Encefalogramma piatto"
Oltre al cagnetto, Mauro e mio padre mi hanno portato cibo in abbondanza, la
macchina da scrivere e un cellulare di seconda mano. Consegnandomelo, mi dissero che secondo l'avvocato Calligaris
avevo diritto di tenerlo purché comunicassi solo con lui e con i familiari
autorizzati ad assistermi. E' strano perché sette anni fa, quando mi trovavo
agli arresti domiciliari a casa dei miei, il giudice fece disattivare il
telefono fisso e l'avvocatessa che avevo all'epoca non fece mai cenno alla
possibilità di comunicare con lei tramite telefonate. Ed è ancora più strano
perché quando mio padre venne la prima volta col pullman circa un mese fa,
facendosi accompagnare alla baita dal fuoristrada dei carabinieri, che gentilmente
si prestarono alla bisogna, il rappresentante dell'Arma volle controllare che
in mezzo ai pacchi di pasta e di zucchero non ci fosse un cellulare. Poiché il
dubbio mi è rimasto, se dovessi vedere che il Defender prosegue sulla strada
forestale sottostante perché ci sono notifiche da farmi firmare, nascondo il
cellurare dopo averlo spento, per evitare qualsiasi rischio di contestazione.
Finora non è successo, finora sono venuti solo per controllare la mia presenza,
senza entrare in casa. Accendo il telefonino tutte le mattine alle otto, pur
sapendo che nessuno mi chiamerà, ma è un'abitudine che avevo anche prima, con
il vecchio numero.
Tuttavia, c'è sempre la possibilità che l'avvocato mi
telefoni, almeno nei giorni feriali, magari per comunicarmi l'ora del suo
arrivo, come mi aveva promesso quando c'incontrammo nell'ufficio del giudice.
Nelle prime settimane ci credevo, ma adesso ho il sospetto che non verrà mai a
trovarmi, nonostante (o forse proprio per questo) mio padre gli abbia dato
mille euro senza prima consultarmi. Se lo avesse fatto, se mi avesse chiesto un
parere, gli avrei detto che, in quanto disoccupato, usufruisco del gratuito
patrocinio e che Calligaris sarà pagato dallo Stato. Ma, si sa, i genitori
vogliono autoflagellarsi, per potersi commiserare.
Cioè, perché gli astanti
vedano quanto sono buoni loro e quanto invece sono cattivi i loro scapestrati
figlioli. Pagare l'avvocato a mia insaputa è stato perciò un doppio insulto nei
miei confronti, perché continuano a trattarmi come un bambino immaturo e perché
aumentano la quantità di biasimo che parenti e conoscenti metteranno sul mio
conto. D'altra parte, rimproverarlo più di tanto non posso, perché è mio padre,
mi porta il cibo ed è l'unica persona, insieme a mia madre e all'amico Mauro,
che mi sta aiutando in questo momento di difficoltà.
Se avessi una mentalità un
pò più borghese e sdolcinata, direi anche che non posso sgridarlo perché mi ha
dato la vita, ma siccome non è stato ancora appurato se vivere sia un valore di
per sé, non sono del tutto sicuro di dover provare gratitudine nei suoi
confronti, per avermi chiamato a lottare in questo mondo di atomi e molecole. C'è,
tra noi, un tacito accordo. Lui mi fa una moderata paternale, uno o due
commenti moralistici, specie in presenza di qualche carabiniere, per l'incendio
doloso di cui sono accusato, e io mi limito a fargli capire la stupidità del
suo gesto senza calcare troppo i toni.
E' stato un gesto poco accorto, il suo,
soprattutto se si pensa che prima del mio arresto avevo chiesto ad un amico
animalista di indire una colletta in favore dell'avvocato - e in effetti un pò
di soldi gli erano arrivati - cosicché non ha senso che sia io, cioè mio padre,
a pagarlo quando ci penserà, per legge, lo Stato e ci penseranno - o dovrebbero
pensarci - gli altri attivisti, cioè quel movimento per i diritti animali di
cui faccio parte a tutti gli effetti.
E qui si apre quel triste capitolo che va
sotto il nome di solidarietà di gruppo, una solidarietà del tutto assente, il
"punctum dolens" di questo movimento. Punto dolente che non riguarda
solo il comportamento di quelle persone che dissentono dal sistema di
sfruttamento ai danni degli animali, messo in opera dal genere umano, ma
riguarda anche gli animali stessi, perché quella che è una vergogna per gli
animalisti, l'infingardaggine, si traduce in un ulteriore danno per quelle
innocenti creature, che hanno a che fare con la crudetà della maggioranza degli
uomini in una prima battuta e con l'ignavia di una minoranza d'essi, che
vorrebbero difenderli, in seconda battuta.
Traditi due volte. E la seconda fa
più male. Non tanto a loro, gli animali, che non se ne rendono conto, ma fa più
male a me che da troppi anni ricevo segnali di paura da parte di coloro che,
bene o male, sono stati e sono tuttora miei compagni di lotta.
Lotta che è di per sè, lessicalmente parlando, una parola grossa, ma che sono
costretto a usare per la povertà intrinseca del linguaggio. Se quella in difesa
degli animali è una lotta, allora è una lotta molto sbiadita, all'acqua di rose,
quasi una presa in giro. Poiché il potere nasce dalla ricchezza, e buona parte
della ricchezza del mondo viene dallo sfruttamento degli animali, ne deriva che
i loro potenti nemici mai e poi mai accetteranno le richieste degli animalisti,
le cui suppliche, le cui petizioni, i cui ricorsi faranno tutti la fine che si
meritano: polverosa carta su cui la gente - in genere borghesi benpensanti - avrà
firmato la petizione, di volta in volta proposta dagli animalisti,
nell'illusione di cambiare le cose.
Da quando ho questo nuovo cellulare, mia madre mi telefona in media un paio di
volte la settimana, per informarsi sulle cose da comprare. Durante la prima
telefonata, che mi fece dopo più di un mese dal mio arresto, evitò di farmi
prediche e recriminazioni. Evitò di piangere. Si mantenne su un piano
pragmatico e volle sapere di quali generi alimentari avevo bisogno. A ciascuno
il suo ruolo: al padre le paternali e alla madre il vettovagliamento.
Le prime
due notti dall'arrivo del cellulare mi successe una cosa curiosa. Una settimana
prima avevo riconosciuto il latrato della volpe, preludio agli accoppiamenti e
segnale della fine dell'inverno. Le avevo messo dei croccantini e, a meno che
non sia stato il gatto, qualcuno ne aveva approfittato. Così, aspettando
l'avvento della primavera, una mattina verso le sei fui svegliato da un canto
d'uccello molto forte. Assomigliava al verso di un galletto, ma piuttosto
metallico, e s'interrompeva bruscamente. Pensai che un uccello di media taglia
si fosse posato sul tetto in lamiera della baita e siccome non avevo sentito il
rumore dei suoi passi, i sospetti si concentrarono sugli strigiformi, che hanno
un volo silenzioso e un modo di fare furtivo, ma anche sui tetraonidi, che si
levano in volo di scatto dal luogo in cui si trovano buttandosi a capofitto giù
nella valle.
Questo comportamento isterico avrebbe dovuto spiegare la brusca
interruzione del canto. Oltretutto, in vita mia, non ho mai visto né udito un
gallo cedrone o un gallo forcello, che sono quindi uccelli alquanto misteriosi
per me, e il verso sembrava uscito dal becco di un gallinaceo, mentre i canti
di gufi e di civette li so riconoscere facilmente. Ero pronto alle sorprese,
non potevo escludere che, complice la frenesia primaverile, un francolino di
monte mi avesse fatto l'onore di posarsi sul tetto della mia casa, tenuto conto
che cinque anni fa, una sera, una coppia di succiacapre volteggiò a lungo sul
prato antistante la mia terrazza, senza farsi più vedere negli anni seguenti.
Tuttavia, il manuale Bruun-Singer descriveva il canto dei tetraonidi in maniera
del tutto diversa da quello che avevo sentito io, così che, ecludendo i
singulti baritonali dei rapaci notturni, ancora più diversi, la sera seguente
mi coricai con l'intenzione di alzarmi e andare in terrazza, se il misterioso
volatile fosse ritornato, nella speranza di cogliere almeno la sua sagoma in
fuga, per cercare di riconoscerlo.
E infatti, puntualmente, fui di nuovo
svegliato dallo strano canto, ma aprendo gli occhi nella stanza buia, vidi uno
strano bagliore provenire dal cellulare posato sulla credenza, che avevo
regolarmente spento la sera prima. Allora capii. Era la sveglia. Doris, la
moglie di Mauro, a cui il cellulare era appartenuto, aveva programmato la
sveglia alle sei del mattino, quando tutti i cristiani si svegliano per andare
a lavorare e come suoneria aveva giustamente scelto il canto del gallo.
Questo aneddoto, se da una parte evidenzia la mia dabbenaggine e il desiderio
spasmodico di avere incontri ravvicinati con altre specie, dall'altra mostra
come i diavoli calibro dodici abbiano fatto dei boschi e delle campagne un
deserto, impedendo a noi buona gente di fare amicizia con gli animali, e mi fa
venire in mente una storia simile accaduta molti anni fa. Nel 1990, per la
precisione. Andai a Berlino, con Edilio e Dario. Io in vespa, loro con una Honda quattro e cinquanta. Fermatici in un boschetto della Germania centrale,
Dario si mise a dialogare con un uccellino.
"Dai, vieni a darci una mano con le tende", gli dissi.
"Aspetta, c'è un uccello che mi risponde".
E in effetti, il ragazzo e l'uccellino invisibile fra le fronde duettavano in
sincronia perfetta. Così mi misi anch'io a naso in su per un pò, ma siccome non
vedevo niente che potesse assomigliare a un volatile, ripresi i lavori di
allestimento del campo. Dopo mezzora io ed Edilio avevamo fatto tutto quello
che c'era da fare, ma Dario era ancora fermo nello stesso posto, in piedi, a
naso per aria, fischiando in risposta al tenace pennuto. Quando alla fine tornò
da noi, gli chiesi: "Allora, sei riuscito a vederlo?".
"No, erano due rami che si strofinavano l'un l'altro".
C'è da dire, a sua parziale discolpa, che Dario portava occhiali spessi da
miope, ma anche qui appare evidente il bisogno che molti umani provano di
interagire con le altre specie, bisogno che il più delle volte viene
soddisfatto violentemente andando a vedere gli animali negli zoo, o nei circhi,
o peggio ancora andando a stanarli, armati, nel loro habitat.
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