Fonte: L'intellettuale dissidente
E’ di pochi giorni fa l’allarme
lanciato dall’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) sul
rapporto tra una dieta a base di carne rossa e la comparsa dei
tumori. Maiale, manzo, vitello, agnello, pecora, cavalli e capre
sono sulla lista, subito dopo le carni insaccate e trattate, quali
wurstel, salumi e prosciutti. Nessun allarmismo! – gridano quelli
dell’Oms – ma la notizia è già tra le più viste sui motori di
ricerca virtuali. Ridurre drasticamente il consumo di carne rossa,
infatti, equivarrebbe a cambiare uno stile di vita profondamente
radicato alla nostra tradizione culinaria che della figura del
norcino – macellatore, ma anche chirurgo e dentista – ha fatto
una maschera teatrale e oggetto di versi e filastrocche. Era il Belli
che preferiva farsi “castrà da un norcino alla Ritonna”,
piuttosto che andare nel “deserto” della campagna romana, a cui
preferiva la Roma della Salita dei Crescenzi, dove si situavano le
norcinerie.
Ma adesso, all’insegna
del “ve lo avevamo detto”, sono i vegetariani e i vegani seguiti
dai respirariani
- capostipiti di una
tendenza d’avanguardia a sostegno della possibilità di campare con
la sola energia cosmica (sic!) – a leccarsi i baffi. La carne
rossa fa male, come fa male l’alcool, così come fa male il fumo.
Questo dato non avrà un impatto decisivo solo sui consumi
alimentari, ma aprirà anche una stagione di terrorismo
diagnostico: quello che ha portato Angelina Jolie a farsi asportare i
seni e le ovaie per prevenire un tumore a cui era “geneticamente”
predisposta: decisione, questa, ritenuta “sacrosanta” dal
padreterno della medicina Veronesi, che invita ad asportare i seni
sulla base dei test genetici. Come se l’identificazione tra calcolo
delle probabilità e speranza di vita fosse inequivocabile, si
sta cancellando dal nostro orizzonte di senso l’idea
dell’uomo sano, per tratteggiare quello dell’uomo perennemente a
rischio, impaurito e intimidito dalla vita. A questo punto
l’esistenza è concepita come un progressivo inveramento della
morte, tanto da far cadere, sotto la mannaia della scienza delle
probabilità, la massima epicurea “quando noi ci
siamo ella non c’è, quando lei c’è noi non ci
siamo più”. Perché adesso la morte è psicologicamente parte
attiva nella vita.
Questione filosofica a
parte, è vero che il caso dei danni causati del consumo di carne, in
questi ultimi anni, con le varie campagne di sensibilizzazione, è
iper-mediatizzato, e quindi il cittadino è costretto a fare sempre
più attenzione a quello che mette nel piatto. Tuttavia, ci chiediamo
perché a questo interesse crescente da parte delle istituzioni, non
segue un’attenta diagnosi delle trattative con gli Stati Uniti in
materia di libero mercato alimentare. Si guardano bene il
Ministero della Salute, l’Airc e l’Oms dal puntare il dito contro il TTIP. Quindi
da un lato, siamo costretti a subire una campagna d’allarmismo sul
piano istituzionale, che recinta di giorno in giorno il nostro stile
di vita sotto la pretesa smania di controllo (test, esami clinici,
prevenzione infinita), dall’altro, però, la realtà della
produzione non è in grado, guidata dalla smania dell’efficenza, di
produrre cibo in modo sano e sostenibile, ma anzi, in nome del libero
mercato, abolisce più vincoli possibili in materia di igiene
alimentare, sicurezza, allevamento e nutrizione.
Perché se c’è un'emergenza nel consumo di carne rossa e derivati, non ci facciamo
problemi ad abolire le regolamentazioni che fino ad ora
impedivano l’ingresso delle corporations
americane nella nostra economia? Perché, ci domandiamo, con la
potenza mediatica che hanno acquisito le Organizzazioni attente alla
salute, nuova mitologia della impaurita postmodernità, non si
boicotta intensivamente questo Trattato che inonda il mercato
europeo di carne riempita di ormoni e di antibiotici, e che non
ritiene necessari controlli sulla filiera e apposite
normative sulla provenienza e sulle indicazioni geografiche del
prodotto? Ad esempio: se un pollo è allevato in America, ma viene
abbattuto in Italia, è di denominazione d’origine italiana?
Rimangono aperte molte questioni, ma quello che fino ad ora è certo,
è che c’è un cortocircuito nel sistema capitalistico, che ci vede
strozzati tra due fuochi, tra una sovrastruttura che impone una vita
sana a tutti i costi, e dei modi di produzione che generano
il contrario.
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