sabato 15 agosto 2020

Il coronavirus lo diffondono i napoletani


Testo di di Vincenzo Esposito

«Il morbo del soldato napoletano»: mezza Europa chiamava così la Spagnola. Cento anni fa terminava l’epidemia che nel mondo fece 100 milioni di vittime. Nella storia delle pandemie è fondamentale il concetto dell’«estraneo». La malattia che spaventa e stermina la popolazione non può mai venire dal proprio territorio, ma da altri luoghi, lontani e di facili costumi. 


Il coronavirus è cinese, al pari di altre infezioni come Sars, aviaria ecc. In passato però, chissà per quale strana ragione, era il nome di Napoli ad essere accomunato alle infezioni più gravi. La sifilide, ad esempio, venne chiamata in Francia e in mezza Europa «Mal napolitain» perché si riteneva che fosse scoppiata nella città del Golfo. Forse vero, ma questo avvenne nel 1496, cioè un anno e passa dopo che l’esercito di Carlo VIII aveva cinto d’assedio la capitale. Lo componevano francesi e mercenari provenienti da ogni parte d’Europa, e anche centinaia di prostitute che, senza farsi problemi di igiene, soddisfacevano gli appetiti dei soldati. I napoletani, d’altra parte, lo chiamavano «lo malo franzese». Ma ognuno lo battezzava a modo suo e sempre tentando di sminuire i popoli che maggiormente si aveva in odio: per gli arabi era «il mal cristiano», in Russia «mal dei polacchi» e a Varsavia «morbo gallico».



La storia si è ripetuta con la Febbre spagnola che uccise, cento anni fa, tra il 1918 e il 1920, dai 50 ai cento milioni di persone nel mondo secondo gli ultimi studi. In Italia le vittime furono (per grande difetto grazie alla censura) circa seicentomila, lo stesso numero dei soldati italiani caduti sul campo di battaglia durante la Grande guerra. Ciò che qui è ancora conosciuto con il nome di «spagnola», in mezza Europa e proprio in Spagna è ricordato come «il morbo del soldato napoletano».

Ma che c’entra Napoli con quella pandemia? Nulla. A spiegare perché la malattia venne etichettata come napoletana è la storica e giornalista britannica Laura Spinney in «1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo», pubblicata in Italia da Marsilio. La storia è molto semplice. L’epidemia scoppiò in Kansas in marzo quando un cuoco militare si presentò al reparto medico con febbre alta e polmonite. Migliaia di soldati lo seguirono ma questo non fermò la spedizione americana oltre oceano. Le truppe attraversarono la Spagna per andare a combattere. Il contagio si allargò a macchia d’olio ma i Paesi in guerra non ne parlavano per non mostrarsi deboli davanti al nemico. La Spagna, neutrale, invece lo fece (da qui il nome di spagnola), e parlò del morbo. A Madrid era in cartellone nel maggio di quell’anno una commedia che conteneva una canzone che ebbe un enorme e immediato successo, assai popolare. Si intitolava «Il soldato napoletano» e fu con quel nome che venne ribattezzato il male. Anche perché un luminare della medicina spagnola, Luis Ibarra, stabilì che gli effetti del «soldato napoletano» fossero provocati da un «accumulo di impurità nel sangue dovuto all’incontinenza sessuale»: tutta colpa degli «eccessi di libidine» che avrebbero causato «uno squilibrio degli umori». Insomma il ritorno per altre vie del «Mal napolitain». Ma i semplici medici di base capirono che la malattia si diffondeva nei luoghi affollati e vietarono gli assembramenti.

E a Napoli cosa accadde? Di Febbre spagnola si parlò soltanto dopo la fine della guerra e i soldati che tornarono a casa la diffusero tra la popolazione. Le prefetture fecero delle ordinanze che assomigliano molto a quelle di oggi: «Non starnutire e non tossire senza essersi coperta la bocca con un fazzoletto; non sputare in terra; non baciare, non dare la mano; non frequentare caffè, ristoranti e osterie affollati; salire in carrozza meno che si può; tenere aperte le finestre con qualunque tempo e in ogni luogo. Vivere più che si può all’aria libera; non fare visite né riceverne. Evitare soprattutto di recarsi negli Ospedali e in quei luoghi ove sono, o sono stati, dei malati; non viaggiare; respirare possibilmente attraverso il naso ed evitare di volgere la bocca a chi vi parla; disinfettarsi le mani prima di mangiare; fare mattina e sera sciacqui alla bocca e gargarismi con acqua e tintura di iodio. Pulirsi regolarmente i denti; non sollevare polvere nelle case. Lavare il pavimento con disinfettanti».

Per quanto riguarda le vittime a Napoli non ci sono dati certi. Eugenia Tognotti, docente dell’Università di Sassari, nel suo saggio «La spagnola in Italia» è andata a caccia delle lettere inviate all’estero e intercettate dai controlli. Si trovano in un fondo dell’Archivio Centrale dello Stato, «Reparto censura posta estera». Ecco alcuni stralci: «Qui c’è una malattia chiamata febbre spagnola che si sta portando una buona quantità di carne umana al Camposanto. A Napoli ne muoiono trecento al giorno… Ma ti dico la verità, che è una cosa mai vista in questo mondo, sembra la fine del mondo, si è unita la guerra e la malattia e si è fatta una buona manzata»; «Noi si sta all’erta più che si può, la bocca e il naso con acqua disinfettante, e vaselina per il naso appositamente preparata, perché sono bacilli che si respirano nell’aria, dalla bocca oppure dal naso, che Dio ci salvi». «Non più preti, non più croci, non più campane»; «Nel paese c’è una malattia che fa paura, ce ne muore di giovani sul fior della vita. Ce n’è tanti ammalati che fa paura, ce ne muore un’infinità, si sente sempre suonare da morto, pare proprio un castigo, una carestia, un tempo da studiare e meditare». Cento anni fa, «il morbo del soldato napoletano» che con Napoli non c’entrava niente. 

5 commenti:

  1. A Firenze si dice : di qualche bischero deve esser la colpa. Alla corte di Versailles, per esempio, gli omosessuali venivano chiamati i "fiorentini". Etichetta che ci è rimasta cucita addosso, a torto oppure a ragione. Avete notato, nel cinema, che gli omosessuali parlano spesso con accento toscano??

    Quindi nessun morbo originato dai napoletani o dagli spagnoli cento anni fa, ma proveniente dalla terra della "libertà". Ci può stare. Gli anglosassoni non sono dei maestri in fatto di igiene. Ad onta delle innumerevoli docce settimanali sembra non siano molto puliti. Specialmente dalla cintola in giù. Dagli all'untore....

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  2. Nato a meno di 500 metri da casa mia.. Lo conoscevo di vista. Lo vedevo spesso la domenica, alla messa. Era un professore. Esagerato, fastidioso, in altre parole un non troppo educato molestatore. Non lo stimavo come "uomo" e non lo stimavo come attore. A me non piaceva. Per la sua chiamiamola fastidiosa insistenza, bruciò una promettente carriera in televisione. Anno 1961,o 1962. RIP.

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    1. Credo che sia stato un antesignano di quell'esercito di.....devianti sessuali che poi avrebbe invaso la televisione.

      Me lo ricordo perché per me bambino era un personaggio simpatico, anche se non avrei saputo dire perché.

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  3. Ebbe la sfortuna di scontrarsi con Ettore Bernabei, fiorentino,
    direttore generale della RAI. Quello che fascio' le cosce delle Kessler con le calzamaglie nere. Troppo esuberante il Paolo. Altri omosessuali più tranquilli e meno appariscenti vivacchiavano tranquilli a 24 pollici. Uno fra i tanti Paolo Carlini, attore di prosa. Accreditato come amante più o meno segreto di Sua Santità Paolo VI.

    C'è del marcio in Danimarca.

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