Imputata:
Emilie Filou, collaboratrice della Lonely Planet. Frase incriminata (pag. 241):
“Il Madagascar ha sviluppato un’originale haute cuisine che fonde influenze malgasce e francesi traendo il
meglio dagli ingredienti locali. Tra i nostri piatti preferiti ci sono la
bistecca di zebù con salsa di peperoni verdi e patate fritte, il pollo arrosto
con puré di patate alla vaniglia e la cernia in salsa di grani di pepe rosa con
patate saltate. Tra gli antipasti figura, naturalmente, il patè di fegato
d’oca”.
Come
le guide religiose, di qualsiasi religione, sono le principali responsabili del
mantenimento dell’umanità su un basso livello di consapevolezza, così le guide
turistiche tascabili sono responsabili della conferma delle logiche speciste
applicate ai rapporti tra uomo e animali. La francese Emilie Filou, come
sicuramente tutti gli altri collaboratori della più prestigiosa edizione di
guide turistiche del mondo, la Lonely Planet, ha dato il suo inconsapevole
contributo alla formazione del codice etico più diffuso nel mondo, che è già in
partenza specista e che conferma ciò che il turista medio vuole veder
confermato: il pieno dominio dell’uomo sulle altre creature. Dunque, nessun
accenno alla crudeltà a cui sono sottoposti gli zebù prima di essere macellati,
ai maltrattamenti a cui sono sottoposti i polli prima di fare la stessa fine,
né tanto meno alcun sentimento di pietà verso i muti pesci, pescati in quantità
enormi in Madagascar, che sono muti solo per chi ha il cuore indurito da anni
di educazione scolastica specista.
Il culmine dell’indifferenza verso il dolore altrui, la Filou, da brava
francese, lo raggiunge quando ammette che il patè di fegato d’oca è il suo
antipasto preferito, di modo che, ciò che per una pasciuta femmina umana è un
semplice antipasto, per migliaia di oche e anatre è una tortura dolorosissima.
Non credo che l’autrice si sia mai documentata su come il suo antipasto
preferito venga prodotto. Se fosse originaria delle isole danesi Faer Oer,
avrebbe scritto che la caccia al globicefalo è il passatempo entusiasmante
preferito dei suoi compaesani isolani, consigliando la partecipazione alla
mattanza agli eventuali turisti; se fosse originaria della Spagna avrebbe
tirato in ballo l’antica tradizione della tauromachia, invitando calorosamente
i lettori ad assistere a una corrida almeno una volta nella vita; se fosse
turca avrebbe detto che la zuppa d’occhi di pecora è la soupe più saporita che esista al mondo, esortando a
superare l’occidentale prevedibile ribrezzo per una minestra che guarda chi la
mangia, ma siccome è una francese mangiaranocchie, non può evitare di lasciare
la sua peculiare impronta specista in una guida per turisti desiderosi di
scoprire le piacevolezze gastronomiche del Madagascar.
Anche se so che questo messaggio non ti arriverà, gentile signora Filou, ti
spiego lo stesso come si ottiene il fegato d’oca. Intanto, va detto che questo
tipo di pietanza rientra nel novero delle cosiddette efferatezze alimentari,
giacché implica prolungata sofferenza negli animali che ne sono vittime. Un
altro caso appartenente a tale categoria sono le aragoste bollite vive, appena
estratte dall’acquario. In Cina, e in modo particolare a Canton, come
testimoniato da Tiziano Terzani, in certi ristoranti si mangia il cervello di
scimmia viva, in cui una scimmietta immobilizzata in un buco in mezzo al
tavolo, viene dapprima fatta ubriacare dagli avventori, lasciando poi a un
abile cameriere il compito di scoperchiare la calotta cranica, messa così a
disposizione dei voraci cucchiaini dei clienti. In altre parti della Cina si
gettano nell’acqua bollente cani ancora vivi, anch’essi destinati al consumo
alimentare e ciò ci fa capire che se in Occidente parliamo di efferatezze
alimentari, in Estremo Oriente non esiste nemmeno tale concetto. Lo specismo ha
radici antiche e planetarie.
Gettare crostacei intelligenti e sensibili in acqua bollente è paragonabile a
quel passatempo dell’antichità, in auge presso tiranni particolarmente feroci,
laddove i prigionieri venivano spinti all’interno di un simulacro cavo di
bovino in metallo. Indi, gli inservienti accendevano un fuoco sotto la statua e
quando il metallo cominciava a diventare rovente, la vittima emetteva urla di
dolore che all’esterno suonavano come muggiti, con grande sollazzo del crudele
despota e della sua corte. Ci sono stampe che testimoniano tale orribile
supplizio, ma altro non so sulla biografia di simili mostri che provavano
diletto a tormentare così i loro prigionieri o avversari politici. Io semplicemente
li definisco predatori psicopatici e la Storia purtroppo ne è piena.
Naturalmente, la signora Filou, se anche è al corrente delle torture inflitte
ad esseri umani rinchiusi in un bue di metallo, non arriva ad associare la cosa
alle aragoste, alle cicale di mare e ai granchi gettati nella pentola bollente,
che manifestano la loro sofferenza dando forti colpi al coperchio, per altro
ben serrato, nell’inutile tentativo di scappare.
Nei musei della civiltà contadina delle mie parti, insieme ad erpici ed aratri,
si trovano spesso imbuti chiusi superiormente da una lamiera scorrevole, da cui
fuoriesce, al centro, una manovella. Al loro interno, una vite infinita
s’incarica di far entrare nel gozzo dell’oca il granoturco o le altre granaglie
destinate a far ingrossare il fegato dei malcapitati pennuti. Nei tempi di
miseria, certi contadini, forse avendo come clienti i borghesi del paese,
lasciavano che il compito d’immettere granaglie nello stomaco di oche e anatre,
in quantità eccessive, fosse lasciato ai bambini, che così imparavano che degli
altri animali si può fare ciò che si vuole. Se poi quei bambini, e stiamo
parlando ancora degli anni di miseria in Friuli e altrove, avevano la fortuna
di andare a scuola, sentivano la maestra dire che la mucca ci dà il latte, la
gallina le uova e il maiale tanti buoni salamini, di cui almeno uno doveva
essere messo da parte per lei, da consegnarsi a fine anno scolastico. Di modo
che, giorno dopo giorno, con attività pratiche d’ordinaria ferocia, indotte dai
genitori, e attività teoriche impartite dalla brava maestrina dalla penna
rossa, si “fabbricava” il perfetto cittadino specista, convinto che Dio ci
abbia dato il potere sulle bestie, rispettoso della monarchia e pronto a farsi
carne da cannone se il re lo comanda.
Siccome la violenza sugli animali è propedeutica alla violenza sugli
uomini, principio mai abbastanza pubblicizzato, anche nel caso
dell’ingrassamento forzato degli anatidi, che ora è fatto a livello industriale
lontano da occhi indiscreti, c’è un corrispettivo nelle crudeltà che la Storia
ha registrato ai danni di esseri umani. Si tratta della tortura dell’acqua.
Anticamente era per esempio la Sacra Inquisizione a praticarla su eretici,
streghe e stregoni. In anni più recenti sembra sia stata fatta anche dagli
americani ad Abu Grahib e a Guantanamo. Non posso escludere che in questo
momento quegli altri predatori psicopatici saliti alla ribalta della cronaca e
che sono conosciuti come ISIS, lo stiano facendo ai danni di qualche loro
prigioniero. Nell’antichità al prigioniero disteso su un tavolaccio veniva
fatta bere a forza una grande quantità d’acqua, tanto che nelle stampe che
ritraggono la scellerata infamia si vede il poveraccio con un ventre enorme,
mentre la versione moderna prevede che una garza venga posta su bocca e naso
del prigioniero e che vi venga
versato sopra lentamente dell’acqua, a più riprese. Il senso di soffocamento è
atroce, ma è proprio ciò che i torturatori vogliono ottenere. Infatti, sia
gl’inquisitori domenicani, che i militari aguzzini non mirano tanto ad
estorcere informazioni o confessioni, ma il loro obiettivo inconscio, da bravi
predatori psicopatici, era ed è di infliggere sofferenza a esseri umani, con la
certezza dell’impunità.
Tutti i produttori vecchi e nuovi di patè di fois gras, non vogliono ottenere informazioni dalle oche, ma
appropriarsi del loro fegato malato, dato che nelle oche vedono solo la fonte
del loro disumano profitto, nello stesso modo in cui chirurghi di pochi scrupoli,
complici di accaparratori di bambini del Terzo Mondo, non vedono un essere
umano in fieri, strappato magari ai suoi affetti familiari, ma un contenitore
d’organi da salvaguardare quel tanto che basta per farlo arrivare nella sala
operatoria dove gli verrà tolto l’organo da trapiantare sul ricco, sfatto e
troppo pasciuto committente. Anche in questo caso, l’eterea signora Filou,
collaboratrice di Lonely Planet, non riuscirà a fare il collegamento tra il
fegato d’oca che le piace tanto, portato a uno stadio patologico di steatosi, e
le cornee o i reni del bambino rubato alla famiglia in Sudamerica e i suoi
organi “donati” al ricco cliente nordamericano. La signora Filou, giornalista freelance, ama il fegato d’oca. Io non amo per niente la
signora Filou e tutte le altre superficiali, speciste, cattive maestre sue
pari. E non smetterò mai di condannarle moralmente.
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