Scesi subito dalla bici quando mi accorsi che una donna stava scopando via due camaleonti dal cortile di casa, sospingendoli verso il centro della strada. Vabbé che a Tulear passano poche macchine, ma il pericolo per due camaleonti non è costituito solo dalle rare autovetture, bensì anche dai piedi dei molti passanti e dalle ruote delle biciclette. Per non parlare dei pousse pousse. La donna fu ben contenta che le togliessi il duplice ingombro e non si meravigliò più di tanto vedendomi mettere i due sauri dentro lo zainetto. Fu così che per la prima volta scoprii che le loro zampe sono dotate di unghiette appuntite, che se possono andare bene per aggrapparsi alla corteccia di un albero, vanno meno bene quando si aggrappano al mio braccio, considerato che io sono dotato di sistema nervoso, a differenza dell’albero. Dico questo, senza voler sminuire la bellezza, l’importanza e la meraviglia della struttura arborea, nonché il rispetto che si deve agli alberi e alle piante in genere. Fu infatti su due piante cespugliose che, una volta raggiunta la periferia della città, liberai i due stralunati camaleonti dagli occhi periscopici. In un’altra occasione e in un’altra cittadina, a Ranohira per la precisione, notai che i camaleonti non disdegnano di andarsene in giro percorrendo la parte superiore delle recinzioni. Il che, evidentemente, li fa sentire al sicuro, in quanto difficilmente raggiungibili, e li porta ad addentrarsi anche in mezzo alle case. Quello della foto non era infilzato dalla punta del campanile, ma se ne andava bello placido, da consumato equilibrista, da un punto all’altro di una recinzione che correva parallela alla strada asfaltata, la RN7.
Uno che faceva la stessa cosa anni fa, mentre io e Tina eravamo alloggiati all’orchidee de l’Isalo, camminava in cima alla rete dell’albergo e, ritenendo che non fosse la cosa più saggia per lui, decisi di agguantarlo e di metterlo dentro l’onnipresente zainetto. Era l’ora della siesta. Tina dormiva in camera. Le dissi che avevo messo un camaleonte nello zaino. Lei ascoltò nel dormiveglia. Forse capì o forse no. Fatto sta che volevo avvisarla che sarei andato in campagna a liberare il rettile. Siccome teneva gli occhi chiusi, non capivo se dormiva o se avesse recepito il mio messaggio. Così le toccai la testa con la mano. Immediatamente fece un salto sul letto gridando: “Huei, babà”, a riprova che non solo aveva ascoltato la mia comunicazione, con cui le parlavo di un camaleonte, ma anche del fatto che le femmine in caso di pericolo chiamano il padre, a differenza dei maschi che chiamano la mamma. Non è che i maschi, per questo, siano mammoni. E’ un fatto di educazione risalente alla prima infanzia di ciascuno. Una specie di complesso di Edipo e di Elettra, latenti. Il piccolo camaleonte, che a sua insaputa aveva fatto prendere un bello spavento a Tina, non seppe nulla di questa storia e riprese il suo cammino lontano dal centro abitato, anche lui sull’immancabile cespuglio.
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