giovedì 3 dicembre 2015

Una gita al lago


Ad Antsirabe non esistono taxi, nonostante sia la terza città del Madagascar. E quindi, mercoledì 2 dicembre, ci si è posta la questione su come andare al lago Andraikiba, distante sette km. Con biciclette prese a noleggio non era il caso, perché Ernestine non è mai andata in bici in vita sua e Tina si sarebbe stancata dopo un chilometro. Due Ape Piaggio a tre ruote sarebbero venuti a costare 80.000 ariary (22 euro) per ciascun mezzo e non ci saremmo goduti il paesaggio, visto che Alessandro è fotografo professionista. Così abbiamo optato per due bicipousse-pousse. La contrattazione prima della partenza è stata laboriosa, come di norma, con Tina che faceva finta di allontanarsi sdegnata per i prezzi esorbitanti chiesti dai conducenti. Se non si fa così, è un salasso continuo. Bisogna conservare il coltello dalla parte del manico, senza cedere alla prima richiesta.



Mentre me ne stavo in disparte, sapendo che la mia presenza metteva in difficoltà Tina con la sua discussione sul costo della trasferta, sento rumore di zoccoli alle mie spalle. Mi volto e due froge fumanti quasi mi toccano la spalla. Il ragazzo cavallerizzo, subito sceso, mi propone un tour per la città. Mi scanso declinando l'offerta. La scena si sposta più avanti, con Tina inseguita da una mezza dozzina di guidatori di ciclo-poussy. Anche il cavaliere in cerca di clienti ci segue e a me non resta che dirgli: “Zhao mataotra”, io ho paura, e infatti, un po' di paura per i cavalli ce l'ho. Anche i conducenti di ciclo-poussy si arrabbiano con il petulante cavallerizzo. E pure Tina si arrabbia perché arrabbiarsi è la norma in Madagascar quando si deve stabilire il prezzo di un servizio. Per lo meno, quando c'è di mezzo un vazaha da spennare. In seguito ho saputo che un giro per la città, di un'ora, a dorso di cavallo costa 30.000 ariary, otto euro e mezzo.


Alle undici antimeridiane partiamo, ogni coppia a bordo del suo ciclo-poussy. Benché ci siano stati tratti in salita, in cui noi passeggeri siamo scesi, cosa che ha permesso ad Alessandro di scattare foto a bambini e particolari architettonici delle abitazioni rurali, al lago siamo arrivati in men che non si dica. Bisogna riconoscere che i ragazzi dei ciclo-poussy sono dei veri atleti, magri e nervosi come il cavallo di piazza dell'Indipendenza. Neanche smontati dai mezzi, subito veniamo circondati dalle donne titolari di chioschi costruiti a pochi metri dalla riva, tutti sullo stesso lato, come quelli della Digue di Tanà, solo un po' più fatiscenti. La mercanzia è la solita: artigianato, stoffe colorate, magliette, cartoline postali, fossili e minerali, visto che Antsirabe è la capitale dei Vakinankaratra, ovvero gli abitanti del Massiccio Ankaratra, zona ricca di quarzi e ogni altro tipo di rocce.


C'era un hotely sulla riva del lago, dove Alessandro ed Ernestine erano già stati in aprile. Lì abbiamo discusso su due parole scritte con un gessetto sulla lavagna del menù: Zava Pisotra. Sapevo che “zava” significa cibo e “piso” vuol dire gatto e mi sono chiesto se per caso significasse “carne di gatto”, visto che solo un paio di giorni fa abbiamo scoperto che anche i Vakinankaratra, oltre ai Masikoro e ai Merina, mangiano gatti. Quando Tina si è avvicinata a noi seduti al chiosco, abbiamo risolto il mistero. La dicitura significa solo “si vendono bevande”. Niente a che vedere con il consumo di carne di gatto.


Si era fatto mezzogiorno. I due guidatori di ciclo-poussy ci riportano indietro per un tratto, fin sulla strada asfaltata dove sorge il ristorante Dera, dalla terrazza del quale, dove abbiamo pranzato, si gode un bellissimo paesaggio, anche se la cosa che colpisce di più è la quiete e la mancanza di mezzi motorizzati. Sarà stata bassa stagione, per quel luogo turistico (io e Alessandro eravamo gli unici due bianchi), ma la calma che si respirava in tutta la zona era davvero rilassante, interrotta di tanto in tanto da qualche taxi be, grossi pulmini da 25 posti, che svolgono funzione di collegamento con la città per la gente del luogo.


Nel giardino del ristorante, che abbiamo attraversato per salire in terrazza, erano stati usati piccoli quarzi rosa a scopo ornamentale, per delimitare le aiuole. Una cosa del genere l'avevo vista a Mangily, solo che al posto dei quarzi venivano usate conchiglie della specie Murex. Sia in un caso, che nell'altro, i giardinieri hanno usato ciò che vi è di più abbondante in zona. I nostri due conduttori hanno mangiato in una saletta apposita, un pranzo a base di riso che il ristorante offre ai conducenti di ciclo-poussy che portano clienti, come una specie di convenzione. Del resto, non ci sono altri ristoranti da quelle parti. Alle due del pomeriggio eravamo di nuovo in città, ma devo aggiungere una postilla sgradevole, veleno nella coda, come si dice degli scorpioni: il nostro conducente brontolava perché oltre al prezzo stabilito, 10.000 ariary andata e ritorno e la mancia, voleva ancora di più. Tina si è alterata, come di consueto, e l'ho sentita polemizzare a voce alta durante l'ultimo Km. Io non ci faccio più caso e mi affido a lei.

4 commenti:

  1. Personalmente odio trattare sul prezzo. Pur essendo di Napoli dove impera ancora l'abitudine di mercanteggiare sul prezzo di ogni cosa. In sostanza anche lì il mondo si divide in cacciatori e polli da spennare. Non c'è pace tra gli ulivi. Mi piacciono i tuoi racconti, le cronache quotidiane di questa esperienza che stai vivendo. Buona giornata. Ciao

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    1. Facendo i mercatini da molti anni, ho un po' di esperienza in fatto di ....bargain, per dirla all'inglese.
      E tuttavia, anch'io odio perdere tempo a discutere sul prezzo. I peggiori clienti dei mercatini sono gli arabi, invisi a tutti gli espositori, me compreso.


      Anche i friulani a volte ci provano, ma li blocco subito paragonandoli ai marocchini. Un minimo fisiologico ci può comunque stare.

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  2. Non mi è mai piaciuto mercanteggiare. Quando sono stato in India (e gli indiani sono i sovrani del mercanteggianesimo), per ogni minima cosa bisogna stare a discutere sul prezzo. Bisognava farlo per forza perchè i prezzi che ti proponevano era troppo alti rispetto al vero valore degli oggetti. Se poi perdevi la pazienza e rinunciavi a quell'oggetto o peggio ancora dicevi al venditore indiano che glielo avresti comprato più tardi (MAI FARLO PER L'AMOR DI DIO), il venditore ti avrebbe seguito in ogni dove, per ogni secondo, anche dentro la vasca da bagno una volta tornato in hotel. Gli unici con cui mi sono trovato bene sono stati i tibetani. Persone meravigliose, dignitose, rispettose della vita altrui e capaci di infonderti pace e serenità.

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    1. Non a caso le alte vette ispirano sentimenti di spiritualità, a differenza delle genti del deserto che, dopo aver sgozzato pecore, si mettono a guardare le stelle e a programmare la prossima battaglia.

      In Tibet c'è poco da conquistare.

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