Se si va a Tulear, non si può non fare una capatina a Mangily, 27 Km a nord sulla strada
sterrata per Morondava, come abbiamo fatto io e Tina venerdì 8
gennaio. Molti turisti si ostinano a chiamarla Ifaty – e anche
nelle guide è chiamata così – ma si tratta di due villaggi di
pescatori diversi anche se distanti un paio di Km l'uno dall'altro,
che hanno avuto due diversi destini. Ifaty è rimasto un villaggio di
pescatori, mentre a Mangily si sono concentrati negli anni ristoranti
e alberghi. Ci sono mangrovie, in alcuni tratti, e il mare non è
bellissimo, presenta rocce sul fondo e l'acqua è quasi sempre
torbida. Tuttavia, il grande tamarindo presso cui ai turisti in vena
di avventure piace fare colazione con caffè malgascio e boko boko –
e a volte anche mangiare pesce fritto e cicale di mare – continua
ad attirare i viaggiatori, che hanno a disposizione sia alberghi
fronte mare, sia quelli più nell'entroterra. Tanto per fare un
esempio, l'ONG spagnola “Bel Avvenir” ha costruito un albergo
ristorante chiamandolo “Solidaire”, a 50 metri dalla strada
principale, verso la foresta. Un anno fa non c'era. C'era già,
invece, Leontine, presso cui siamo andati a chiedere informazioni:
30.000 ariary a notte per un bungalow da cui non si vede il mare e
40.000 per uno in faccia al medesimo.
Per arrivare a Mangily abbiamo
preso uno scassato Mazda giallo e non mi stupirei se avesse già
fatto un milione di Km, di tanto mal messo che era. Siccome viaggio
sempre davanti, a fianco dell'autista, c'è stato un momento in cui
ho immaginato che il fondo si staccasse e io mi ritrovassi col culo
per terra, ad arare con il sedile il terreno ondulato di sabbia
compatta. Non è successo, se no non sarei qui a raccontarlo. Siamo
scesi in centro villaggio e non sotto il grande tamarindo, come
facevano una volta tutti i pick-up brousse in servizio tra Mangily e
Tulear.
Da Leontine, che poi
alla fine, dicendole che cercavamo un posto dove fermarci tre
settimane era scesa a 25 ariary, venerdì era tutto occupato, così
abbiamo preso un bungalow sulla spiaggia Chez Alex, per 35.000
ariary. Ce n'era uno vicino per 30.000 ma abbiamo scoperto subito il
motivo della differenza di prezzo: il wc non funzionava. Non finirò
mai di stupirmi della negligenza dei malgasci che non si curano
minimamente della manutenzione, recando danno a se stessi prima
ancora che ai turisti. Qualsiasi idraulico – e presso gli alberghi
ce n'è sempre uno – saprebbe rendere funzionante un gabinetto, ma
molti malgasci preferiscono lasciare le cose rotte così come stanno,
siano esse serrature, finestre, lavandini o docce. Fa parte della
loro mentalità ed è un fenomeno generalizzato. La presenza di wi-fi
solo in due posti, l'hotel “Solidaire” e Madame Alban, unitamente
ai prezzi elevati di cibi e bevande e al mare torbido pieno di alghe
per la mareggiata del giorno prima, ci hanno fatto decidere di
rientrare in città un giorno prima del previsto. Sabato 9 eravamo
già al Vahombe, infatti.
Mentre percorrevamo la strada di sabbia che
dal grande tamarindo va verso il punto da cui la mattina partono i
pick-up brousse per Tulear, ci imbattiamo in una bambina che teneva
“al guinzaglio”, costituito da un sottile filo di plastica, un
bel esemplare di kololoki. Non so che nome scientifico abbia, ma è
sicuramente uno dei più bei papilionidi malgasci e qualche adulto,
dopo averlo catturato, gli aveva legato un filo leggero attorno
all'addome, dandolo alla bambina come giocattolo. Come mi capitò a
Tamatave nel 2006, dove al posto della farfalla c'era un grosso
coleottero trasformato in macchinina per un bambino, così anche in
questo caso sono intervenuto, non senza trepidazione, per riscattare
la piccola alata prigioniera. Sarà stato per la concitazione con cui
supplicavo Tina di aiutarmi, che invece se la rideva di gusto, ma la
bambina, dopo aver intascato i 200 ariary di mia moglie, è scappata
spaventata. Così mi disse Tina. Io armeggiavo con lo zainetto per
prendere qualche caramella, onde far sì che la bambina non patisse
troppo della perdita del giocattolo, ma quando sono riuscito ad
arrivare al sacchetto dei bon bon si era già dileguata.
Per fortuna,
l'episodio è avvenuto davanti alla proprietà di una famiglia che
Tina conosce e presso cui eravamo stati in visita il giorno prima. Il
signor Daholy, infatti, vista la scena e i miei gesti impacciati, mi
si avvicina con un paio di forbici. Io depongo a terra trolley e
zainetto, frugo nelle tasche, estraggo la chiave della valigetta e
finalmente, aprendo il beauty-case riesco a trovare le forbicine per
le unghie. Poiché a me tremavano le mani (non potrei mai fare il
chirurgo), il signor Daholy ha tagliato con perizia il filo di nylon
e ha liberato il delicato addome della kololoki. Nonostante
l'emozione del momento, sono riuscito tuttavia a fare un paio di
foto, a differenza di quello che mi è capitato il 6 dicembre ad
Antsirabe, quando eravamo in partenza per Tanà insieme ad Alessandro
ed Ernestina, dove al posto di una farfalla c'era un voro tsihay
hany, dai francesi chiamato Martin oiseau. Anche in quel caso, alcuni
bambini avevano legato un cordoncino alla zampa del volatile e,
presentandosi al mio cospetto come se si aspettassero la mia
reazione, guadagnarono la bellezza di 2.000 ariary di mancia,
andandosene contenti. In quell'occasione Tina era distante e non ho
una documentazione fotografica della liberazione. A mangily, invece, ho
fatto tutto da solo, tranne che tagliare il nastrino di nylon e ho
molto ringraziato il signor Daholy, per questo. La prossima volta gli
porteremo un regalo. Con la liberazione della farfalla, ho capito il
motivo per cui dovevo essere lì in quel momento, cioè dovevo andare
a Mangily l'otto e il nove gennaio.
Rientrati a Tulear, il professor
Bruno che alloggia al Vahombe da quasi due anni, mi propone di andare
ad Andaboy, che i francesi chiamano “Batterie”. Vi ero già stato
in moto pochi giorni fa, ma stavolta il professore mi invita ad
andarvi a piedi, approfittando della bassa marea. Quattro Km di
andata e quattro di ritorno, ritornando in tempo per gli spaghetti, e
così, camminando nella melma e guadando un fiumiciattolo che
attraversa un tratto di mangrovie, domenica 10 arriviamo in una bella
spiaggia che, a detta del professore, è migliore di quella di
Mangily. Non ho ancora verificato la trasparenza dell'acqua, ma non
ho difficoltà a crederlo. Il fatto che non ci vada nessun vazaha
dipende dalle aggressioni subite in passato da alcuni residenti
bianchi, tutti francesi. Il primo ebbe il volto sfigurato dalle botte
dei ladri, mentre la coppia di giovani francesi di cui ho già fatto
cenno fu trovata morta proprio su quella spiaggia, per lo meno il
corpo della ragazza. Da quella volta, né i turisti, né i ricchi
Karana, la minoranza musulmana, ci vanno più. Ed è un peccato
perché, anche se non ci sono chioschi con birra ghiacciata, c'è un
bel paesaggio con dune ricche di vegetazione, oltre alla pace
necessaria a ritemprare lo spirito, come dice il professore. La
presenza dei pescatori che tirano a riva le reti è forse l'unico
elemento di disturbo, almeno dal mio punto di vista animalista.
Nella foto, i due
coraggiosi esploratori al momento della partenza, muniti entrambi di
lefo (lancia) per tenere lontani i malintenzionati. O forse solo per
darsi la sicurezza necessaria ad affrontare la temeraria impresa,
sempre che i malaso non siano muniti di kalashnikov. E' probabile che
tornerò ad Andaboy con il professor Bruno, ma quando avrò capito
come intende arrivarvi Tina, se via terra o via fanghiglia, potrei
anche decidere di fare il bagno in quelle acque, visto che finora ho
provato la maschera solo nel mare torbido di Mangily. Se non ci
fossero i banditi in circolazione, Tulear avrebbe una bella spiaggia
fra le sue attrattive, ma la paura fa novanta e Mangily, in questo
caso, ringrazia.
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