Tina, dopo dieci anni di convivenza a singhiozzo, riesce ancora a
stupirmi con i suoi aneddoti. I bambini poveri devono accontentarsi
di giocare con quello che offre l’ambiente e le bambine della
brousse hanno scoperto un modo per divertirsi immaginando di
diventare donne. Quando trovano le trappole a imbuto delle larve di
formicaleone, ogni bambina ne sceglie una e cominciano con il
chiamarlo: “Kokoriko, kokorico!”. Poi scavano con le mani finché
trovano l’animaletto e, in una sorta di ludico autolesionismo, se
lo applicano sui piccoli capezzoli, dicendo che così avranno presto
delle grosse e belle mammelle. Non è un rito di iniziazione, come
avviene per i maschi con la circoncisione, perché non c’è niente
da iniziare. Lo sviluppo avviene naturalmente, ma questo infliggersi
dolore per diventare grandi prima del tempo mi ricorda le diete
rigide a cui si sottopongono certe modelle e la faticosa mania per la
palestra di molte donne occidentali.
Mi ricorda anche il modo con cui
certi africani cuciono le ferite. Cercano formiche soldato di grosse
dimensioni, le applicano sul taglio e l’imenottero, messo a
contatto con la pelle, chiude automaticamente le mandibole. A quel
punto, l’uomo della medicina, o sciamano che dir si voglia,
decapita l’insetto e butta via il corpo. I due lembi della ferita
restano uniti grazie alla testa della formica: verranno usate tante
formiche quanto più è lungo il taglio. Ai “kokoriko” usati
dalle bambine malgasce va un po’ meglio, ma non tanto se si pensa
che una volta estratti dalla tana-trappola e manipolati da mani
infantili non devono trovarsi nelle migliori condizioni. Anche Tina
da bambina faceva questo gioco, da lei stesso definito stupido e, per
la cronaca, il seno di Tina secondo me è di misura congrua.
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