Fonte: Byoblu
Nonostante gli
avvertimenti di Putin e Assad, uno schieramento senza precedenti si
sta radunando nel nord dell’Arabia Saudita, vicino
ai confini con la Siria, per quella che i media chiamano
“esercitazione
militare“, in gergo
North Thunder (il tuono del
nord). 350 mila
soldati, provenienti da almeno
21 paesi arabi che hanno firmato un patto lo scorso dicembre
per “combattere il terrorismo”, tra cui quelli che si affacciano
sul Golfo Persiano (gli Emirati), l’Egitto, il Sudan e il Pakistan,
stanno per addensarsi nell’area saudita di Hafer
al-Batin, cui secondo molti media sauditi – riportano molte fonti –
si aggiungeranno qualcosa come 2.540 aerei da guerra, 20.000
carrarmati e 460 elicotteri, per una 18
giorni di manovre continuative
che non ha precedenti nella storia. La decisione
dell’Arabia Saudita è “definitiva
e irreversibile“, ha detto
il Brig. Gen. Ahmed
Al-Assiri durante una
conferenza stampa lo scorso giovedì, aggiungendo che i dettagli
sarebbero stati precisati dal capo della coalizione, gli Stati Uniti,
e che lui rappresentava esclusivamente la decisione dell’Arabia
Saudita.
Al-Assiri ha anche
aggiunto che se l’Iran vuole unirsi alla coalizione per combattere
l’Isis, deve prima “smettere
di finanziare i terroristi in Iraq, nello Yemen e in Siria”
(ma ci
sono prove governative che a finanziare l’Isis siano stati
proprio gli alleati USA come l’Arabia Saudita). Le manovre giungono
dopo le dichiarazioni dei regnanti sauditi sulla loro adesione a
qualunque operazione di invasione di terra della Siria condotta dai
membri della NATO. Questo, unitamente a un dispiego così massiccio
di forze militari sul confine siriano, fa ritenere che una tale
operazione sia molto vicina. È il primo ministro dell’Arabia
Saudita infatti, Adel
al-Jubeir, ad
aver dichiarato martedì scorso che la proposta di inviare truppe
di terra in Siria è stata approvata da
Washington, e per la
precisione dal Dipartimento di Stato, ovvero dal segretario di Stato
John Kerry, che l’ha accolta definendola “naturale”.
Il ministro degli
esteri siriano Walid
al-Moallem, sabato
scorso, non appena la notizia si è diffusa ha
replicato che “qualunque
intervento di terra in Siria, senza il permesso del Governo siriano,
sarà trattato alla stregua di un’aggressione cui si opporrà ogni
cittadino siriano“. “Mi
dispiace dover dire che torneranno
a casa in una bara di legno“,
ha poi aggiunto, sottolineando che grazie alla progressiva
riconquista di Aleppo, ottenuta con il supporto dell’aviazione
russa e che sta tagliando le gambe ai ribelli e all’ISIS, e “in
base ai risultati delle nostre forze armate, siamo sulla strada buona
per la conclusione del conflitto”
e che “piaccia o no, le
nostre conquiste sul campo di battaglia indicano che stiamo
procedendo ormai verso la fine della crisi“.
Da qui la necessità di un’invasione di terra per non consentire al
legittimo governo siriano di tornare a controllare il suo territorio.
Pavel
Krasheninnikov, un
parlamentare della Duma, ha mandato un
messaggio forte e chiaro all’Arabia Saudita: “Qualunque
operazione militare di terra in Siria senza il consenso di Damasco,
sarà considerata una
dichiarazione di guerra“.
Ma a fare veramente paura sono le
parole del primo ministro russo, Dmitry
Medvedev, al giornale
tedesco Handelsblatt, commentando le esercitazioni programmate
dall’Arabia Saudita: “tutte
le parti devono obbligarsi a sedere al tavolo dei negoziati, invece
di scatenare un’altra
guerra sulla Terra.
Qualunque tipo di operazioni di terra – è una regola – porta
ad una guerra permanente. Guardate cosa è
successo in Afghanistan e in molte altre zone. E non sto nemmeno a
parlarvi della povera Libia. Gli americani e i nostri partner arabi
devono pensarci bene: vogliono davvero una guerra permanente? Pensano
sul serio che potrebbero vincerla rapidamente? È impossibile,
specialmente nel mondo arabo, dove tutti combattono contro tutti“.
Durante la Guerra
Fredda, che recentemente
il capo dell’intelligence americana, James Clapper, ha rievocato,
alla minaccia di invasione russa dell’est europeo, la NATO
discuteva dell’utilizzo di armi
nucleari tattiche per
fermare i 20.000 carrarmati russi. Allo stesso modo, è probabile che
Putin decida di utilizzare armamenti simili per contrastare
l’invasione di terra della Siria condotta dall’Arabia Saudita,
con i 20.000 carrarmati predisposti sul fronte. Mosca ha del resto
appena ricordato che i lanciamissili
russi possono esser equipaggiati con testate nucleari,
augurandosi che non ci fosse bisogno di usarli, ed è di questi
giorni la notizia che la Russia e l’India hanno
raggiunto un accordo per esportare ai loro alleati la tecnologia
dei missili supersonici a corto raggio BrahMos,
in grado di essere teleguidati e lanciati da sommergibili, da aerei,
da navi o da postazioni al suolo.
Non appena le truppe
di terra guidate dall’Arabia Saudita invaderanno la Siria, i
missili russi S-300 e S-400 (quest’ultimo il sistema anti-aereo
probabilmente più sofisticato al mondo) inizieranno ad abbattere i
2.450 velivoli militari NATO e i 460 elicotteri, ma l’unica
soluzione per disfarsi delle truppe di terra e dei 20.000 carrarmati
saranno le armi nucleari tattiche. Questo darà l’innesco
all’escalation, che ai cittadini dei paesi membri della Nato verrà
presentata più o meno così: “I
russi, guidati da Putin, hanno attaccato i nostri alleati con armi
nucleari: non abbiamo altra soluzione che invadere la Siria“.
In realtà, sebbene
possa apparire cinico e amaro, quello che sta accadendo potrebbe
essere un diversivo per distrarre l’opinione pubblica dalla crisi
economica. Le banche europee stanno fallendo a causa dei debiti.
Deutsche Bank ha perso il 5o% del suo valore, di cui almeno il 40%
dall’inizio dell’anno. Se Deutsche Bank fallisce, i
50 mila miliardi di titoli derivati
che
si porta dietro, venti volte il Pil della Germania, travolgeranno
a catena le altre banche. Negli Usa, le banche “too big to fail”
sono a rischio, perché dopo i salvataggi governativi del 2008
hanno continuato a fare quello che facevano. E ora sono ancora più
indebitate. Quindi una guerra nucleare leggermente depotenziata
potrebbe certamente rappresentare una strategia diversiva per
contenere la reazione dei risparmiatori al dissolversi dei loro conti
correnti.
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