Fonte: La Stampa
C’è un paese nell’Astigiano che, pur di non rinunciare alle
sue tradizioni, ha scelto di compiere una piccola (forse non per
tutti) trasformazione che ha riportato la pace. La sostanza è
rimasta e gli animi si sono placati. Il paese è Tonco, nel
Monferrato, territorio blasonato che annovera tra i suoi illustri
figli il cavaliere Gerardo, fondatore dell’Ordine di San Giovanni
in Gerusalemme, divenuto poi Sovrano Ordine Militare di Malta (ma c’è
chi sostiene fosse nato altrove). La tradizione è la «Giostra del Pitu» (il tacchino nel dialetto locale), che si disputa oggi pomeriggio.
Siamo poco dopo l’anno Mille e nel borgo rurale sopravvivono
antiche usanze pagane. Come quella di uccidere un tacchino in
primavera per scacciare i mali e garantire un nuovo anno dal raccolto
prospero e di pace (un «rituale apotropaico», dicono gli esperti).
Poiché nel Medioevo i cavalieri sono soliti misurarsi in tenzoni, la
popolazione decide di scherzare e organizza una Giostra: il tacchino
viene usato come bersaglio e i «cavalieri», in rappresentanza dei
sette borghi del paese, dapprima a dorso d’asino, più di recente a
cavallo, si lanciano in corsa e, sferrando una nerbata, cercano di
decapitarlo. Vince chi ci riesce. Prima, però, il rituale prevede
che vengano dichiarati i suoi misfatti in un «processo», a cui
segue l’inevitabile condanna capitale e il «testamento» del
tacchino, che lascia in eredità parti del suo corpo, aggiungendo
frecciate satiriche, ai potenti del paese.
Con il tempo le tradizioni cambiano. Assumono aspetti religiosi e
sociali nuovi. Fino all’inizio del ’900 si narra che il tacchino
da bersagliare fosse vivo e legato a un palo. In seguito, per rendere
la cosa più spettacolare, l’animale, già morto, viene appeso a
una fune nel centro della piazza sotto cui corrono a turno i
cavalieri. A volte occorrono anche un centinaio di passaggi. Al
termine si festeggia ballando il «brando» (la danza popolare
medievale «branle»). Questo fino al 2009.
Negli ultimi anni la coscienza animalista è cresciuta e così le
proteste. Nel nuovo millennio, accanto al pubblico in festa, si
ingrossa la schiera di militanti dei diritti animali, armati di
striscioni, megafoni e fischietti, determinati a disturbare l’antica
usanza. In un paio di edizioni si rischiano risse tra fondamentalisti
di entrambe le parti, evitate solo grazie alle capacità diplomatiche
del vicequestore Tullio Dezani e a un notevole spiegamento di forze
dell’ordine. La festa acquista un sapore sempre più amaro e gli
organizzatori decidono di fermarsi.
Ma da tre anni la tradizione rivive grazie al buon senso. Una
trasformazione ha permesso di mantenere l’identità del paese: il
pennuto è stato sostituito da un pupazzo di stoffa. Si continuerà a
servire tacchino a pranzo e cena, ma la crudeltà nei suoi confronti
denunciata dagli animalisti non c’è più. Invece a Tonco c’è
una storia in più da raccontare.
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