L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. E io sono tornato alla Table, ma stavolta non mi sono fatto accompagnare da
Artophin e non sono andato con il “tre ruote” Piaggio di Jaina.
Sono andato da solo, facendomi portare da Sambendaty, il nostro
conducente di “pousse pousse” di fiducia. Trattandosi di forza
motrice umana, a differenza di quella del “Bajaji” di Jaina, il
prezzo è stato di un terzo inferiore. E ho pure risparmiato sulla
guida. Poiché, quando ci si immerge nella natura, specie quella dei
tropici, si hanno sempre delle sorprese, stavolta mi è capitato di
avere incontri ravvicinati con due serpentelli, talmente confidenti
che mi è stato possibile anche toccarli sulla coda. Ovviamente, non
sono stati fermi a farsi fotografare troppo a lungo, ma il risultato,
sul piano fotografico, c’è. Come in Sardegna non ci sono vipere,
così in Madagascar non ci sono serpenti velenosi. In entrambi i casi
si tratta di isole e forse qui sta la spiegazione. Di “sondro”,
piccole lucertole marrone scuro, ce n’erano parecchie, sia oggi che
il 2 maggio. Di “dangalie” invece non ne ho viste, o perché fa
troppo freddo per loro, essendo inverno, o perché non è il loro
ambiente prediletto, che è quello della foresta spinosa o i terreni
golenali, sabbiosi. Anche le “dangalie” sono piccole lucertole
con un occhio vestigiale in cima della testa.
Un’altra sorpresa è stata il ritrovamento di un teschio di
cinghiale. Artophin, quando martedì scorso abbiamo trovato degli
escrementi fra le fratte, mi ha detto che erano del “kisoa nhala”,
maiale di foresta, ma mostrando la foto del teschio a Tina, costei mi
dice che il suo nome corretto è “lambo”. Probabilmente, valgono
entrambe le dizioni. Viste le perfette condizioni in cui si trovava
il “karandoa” (teschio) di cinghiale, un pensierino per
portarmelo in Italia confesso che l’ho fatto. Ma poi ha prevalso la
ragionevolezza e l’ho lasciato a casa sua, ai piedi di un albero,
vuoi perché mi porterebbe via troppo spazio in valigia, vuoi perché
con molte probabilità mi verrebbe sequestrato in aeroporto. Già
dovrò, mio malgrado, “ungere le ruote” dei doganieri e dei
funzionari del ministero delle miniere, per i campioni di minerali
che avrò con me, e non vorrei perciò mettermi nei casini per un
teschio di cinghiale, souvenir abbastanza insolito per un turista
normale. Ma io, comunque, turista normale, non lo sono.
Infine, altro piccolo enigma, direi decisamente inquietante. Li
avevo notati già anni fa e sono molto temuti anche dalla gente.
Artophin dice che sono pericolosi per topi e uccelli. E’ facile
immaginare perché, con quei piccoli, atroci uncini che hanno.
Eppure, la diffusione di semi mediante animali è un fenomeno molto
diffuso in natura. Si chiama “diffusione zoocora”, ma in questo
caso porta alla morte topi e uccelli, segno che semi così terribili
sono destinati ad essere trasportati da grossi animali. Forse proprio
dall’uccello elefante, di cui oggi ho trovato 26 frammenti di uovo,
estinto da tre secoli. L’Aepiornis maximus è scomparso, ma non i
semi che la natura aveva previsto trasportasse, per aiutare la pianta
nella sua riproduzione. Ecco, a proposito di questa pianta, c’è un
enigma nell’enigma: Sambendaty la chiama “atata mbolé”, mentre
Tina la chiama “farehitra”. Delle due l’una: o sono i nomi di
dialetti diversi (Sambendaty è Antandroy, mentre Tina è Tanalana),
o stiamo parlando di due piante diverse. Ad ogni modo, ho usato mille
precauzioni per togliermi quel grosso seme uncinato dai pantaloni,
servendomi di un bastone. Se vi verrà voglia di fare una passeggiata
alla Table, per lo meno in quella zona lì, state attenti a dove vi
sedete. C’è una marea di grossi diabolici semi che vi aspetta.
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