venerdì 5 maggio 2017

Serpenti, teschi e trappole vegetali


L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. E io sono tornato alla Table, ma stavolta non mi sono fatto accompagnare da Artophin e non sono andato con il “tre ruote” Piaggio di Jaina. Sono andato da solo, facendomi portare da Sambendaty, il nostro conducente di “pousse pousse” di fiducia. Trattandosi di forza motrice umana, a differenza di quella del “Bajaji” di Jaina, il prezzo è stato di un terzo inferiore. E ho pure risparmiato sulla guida. Poiché, quando ci si immerge nella natura, specie quella dei tropici, si hanno sempre delle sorprese, stavolta mi è capitato di avere incontri ravvicinati con due serpentelli, talmente confidenti che mi è stato possibile anche toccarli sulla coda. Ovviamente, non sono stati fermi a farsi fotografare troppo a lungo, ma il risultato, sul piano fotografico, c’è. Come in Sardegna non ci sono vipere, così in Madagascar non ci sono serpenti velenosi. In entrambi i casi si tratta di isole e forse qui sta la spiegazione. Di “sondro”, piccole lucertole marrone scuro, ce n’erano parecchie, sia oggi che il 2 maggio. Di “dangalie” invece non ne ho viste, o perché fa troppo freddo per loro, essendo inverno, o perché non è il loro ambiente prediletto, che è quello della foresta spinosa o i terreni golenali, sabbiosi. Anche le “dangalie” sono piccole lucertole con un occhio vestigiale in cima della testa.



Un’altra sorpresa è stata il ritrovamento di un teschio di cinghiale. Artophin, quando martedì scorso abbiamo trovato degli escrementi fra le fratte, mi ha detto che erano del “kisoa nhala”, maiale di foresta, ma mostrando la foto del teschio a Tina, costei mi dice che il suo nome corretto è “lambo”. Probabilmente, valgono entrambe le dizioni. Viste le perfette condizioni in cui si trovava il “karandoa” (teschio) di cinghiale, un pensierino per portarmelo in Italia confesso che l’ho fatto. Ma poi ha prevalso la ragionevolezza e l’ho lasciato a casa sua, ai piedi di un albero, vuoi perché mi porterebbe via troppo spazio in valigia, vuoi perché con molte probabilità mi verrebbe sequestrato in aeroporto. Già dovrò, mio malgrado, “ungere le ruote” dei doganieri e dei funzionari del ministero delle miniere, per i campioni di minerali che avrò con me, e non vorrei perciò mettermi nei casini per un teschio di cinghiale, souvenir abbastanza insolito per un turista normale. Ma io, comunque, turista normale, non lo sono.


Infine, altro piccolo enigma, direi decisamente inquietante. Li avevo notati già anni fa e sono molto temuti anche dalla gente. Artophin dice che sono pericolosi per topi e uccelli. E’ facile immaginare perché, con quei piccoli, atroci uncini che hanno. Eppure, la diffusione di semi mediante animali è un fenomeno molto diffuso in natura. Si chiama “diffusione zoocora”, ma in questo caso porta alla morte topi e uccelli, segno che semi così terribili sono destinati ad essere trasportati da grossi animali. Forse proprio dall’uccello elefante, di cui oggi ho trovato 26 frammenti di uovo, estinto da tre secoli. L’Aepiornis maximus è scomparso, ma non i semi che la natura aveva previsto trasportasse, per aiutare la pianta nella sua riproduzione. Ecco, a proposito di questa pianta, c’è un enigma nell’enigma: Sambendaty la chiama “atata mbolé”, mentre Tina la chiama “farehitra”. Delle due l’una: o sono i nomi di dialetti diversi (Sambendaty è Antandroy, mentre Tina è Tanalana), o stiamo parlando di due piante diverse. Ad ogni modo, ho usato mille precauzioni per togliermi quel grosso seme uncinato dai pantaloni, servendomi di un bastone. Se vi verrà voglia di fare una passeggiata alla Table, per lo meno in quella zona lì, state attenti a dove vi sedete. C’è una marea di grossi diabolici semi che vi aspetta.  

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