Fonte: Terra Nuova
È stato assegnato
all'esame delle Commissioni Affari Costituzionale e Giustizia del
Senato il disegno di legge che prende il nome dalla sua prima
firmataria, Adele Gambaro. Obiettivo dichiarato: lotta alle fake
news. Ma è proprio così? C’è
già chi ci ha visto profili di incostituzionalità, correttivi
legislativi parziali e grossolani, pericoli per la libertà di
opinione e di pensiero. Sono le preoccupazioni
che alcuni tra costituzionalisti, giornalisti e attivisti hanno
sollevato riguardo il Ddl Gambaro (QUI
scaricabile il testo )
che vorrebbe regolamentare la circolazione delle informazioni non
veritiere online. Proposito teoricamente nobile, ma occorre definire
molto bene i confini per non sconfinare nella censura travestita. A
proporre una interessante analisi del testo di legge è Valerio
Onida, ex giudice
della Corte Costituzionale e già presidente della stessa Corte,
nonché docente universitario ed ex presidente della Scuola superiore
della magistratura.
«Si tratta di un testo superficiale e
non idoneo a normare ciò su cui si propone di intervenire, cioè la
“rete”, perché va addirittura a modificare i criteri di
punibilità dei reati solo perché il mezzo usato è differente»
spiega Onida. «L’articolo 21 della Costituzione è chiaro, parla
di mezzi di diffusione del pensiero, quindi la rete, come la carta
stampata, la televisione o la radio, deve avere gli stessi limiti e
le stesse garanzie. Peraltro le norme esistono già, si tratta solo
di individuare tecnicamente le modalità più idonee di applicazione.
Ma partiamo dall’articolo 1: crea un nuovo tipo di reato, quello
riconducibile alla circolazione di informazioni attraverso
piattaforme informatiche o mezzi telematici, che viene differenziato
nel trattamento rispetto all’analogo reato dell’articolo 656 del
codice penale che colpisce “chiunque pubblica o diffonde notizie
false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato
l'ordine pubblico”. Poi nel testo si introduce la novità della
pena anche per informazioni che riguardino dati o fatti
manifestamente infondati o falsi. Ma chi verifica? Qui si introduce
il “controllo pubblico” sulla verità o falsità dei dati ed è
inaccettabile. Sulla base di quali criteri assoluti mai si potrà
effettuare la verifica? Peraltro, sempre l’articolo 1
introduce una disciplina speciale per la diffamazione, che però è
già normata da codici e leggi. Anche qui ci si chiede il perché».
Controllo sulle opinioni
«L’articolo 2, poi, introduce
aspetti pericolosi di controllo pubblico sulle opinioni e sulle
idee», prosegue Onida. Si legge infatti che la pena della reclusione
non inferiore a dodici mesi e l’ammenda fino a 5.000 euro sono
previste anche per chi “svolge comunque un’attività tale da
recare nocumento agli interessi pubblici o da fuorviare settori
dell’opinione pubblica, anche attraverso campagne con l’utilizzo
di piattaforme informatiche destinate alla diffusione online“. E qui si inserisce anche la
preoccupazione di numerosi attivisti, associazioni e movimenti
nazionali. «Temo che ci sia il tentativo da parte di un soggetto
istituito di silenziare la società civile e le sue iniziative di
controinformazione», dice Monica
Di Sisto,
vicepresidente dell’osservatorio sul commercio e il clima
Fairwatch, che sta guidando la Campagna StopTtip in Italia.
«Per punire il procurato allarme o
per combattere le notizie false le leggi esistono già. Penso,
invece, al Trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale
tra Europa e Stati Uniti, il Ttip, e alla sua copia in minore per
interessi e fatturati che l’Europa ha sottoscritto e ratificato con
il Canada, il Ceta, come tutti i trattati commerciali di ultima
generazione. I loro testi sono riservati, noti solo ai team tecnici
che se ne occupano. Nemmeno i Parlamenti e i Governi degli Stati
membri sono obbligatoriamente coinvolti nell’andamento delle
trattative. Per conoscerli a fondo è stato prezioso pubblicare tutti
i documenti ufficiali che le realtà sociali, o altre fonti dirette o
indirette, hanno via via sottratto alla loro segretezza. Questa
attività, fortemente criticata da molti decisori politici, ha
portato quasi 5 milioni di persone in tutta Europa a schierarsi
contro la loro approvazione. Ha spinto, inoltre, l’Ombudsman
europeo a imporre alla Commissione UE di rendere più accessibili i
documenti, permettendone la lettura prima della loro approvazione,
almeno ai parlamentari europei chiamati a votarli. Anche la senatrice
Gambaro, per il suo ruolo istituzionale, è chiamata a garantire i
diritti costituzionali nella sua forma più ampia e piena».
Attendibilità e verità
Ritornando al testo del disegno
di legge, il professor Onida si sofferma anche sull’articolo 6, che
fa riferimento al potenziamento della formazione professionale per i
giornalisti per «prevenire il rischio di distorsione delle
informazioni o di manipolazione dell’opinione pubblica». «Anche
in questo caso si rischia di definire informazione solo ciò che sta
bene al potere pubblico, che decide pure come presentarla», aggiunge
Onida. «Anche l’articolo 7 ripropone un’inaccettabile controllo
dall’alto di verità. Si mette in carico ai gestori delle
piattaforme informatiche l’obbligo di verificare l’attendibilità
e la veridicità dei contenuti diffusi. Ma com’è pensabile? È uno
strumento di controllo autoritario e illegittimo. E suona analogo
anche l’ultimo articolo del disegno di legge, il numero 8, che
prevede che la Commissione
parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi
radiotelevisivi monitori
“gli standard editoriali delle piattaforme informatiche destinate
alla pubblicazione e diffusione di informazione con mezzi telematici
delle emittenti radiotelevisive pubbliche».
«Le ricette proposte dai
firmatari del disegno di legge sono anacronistiche, inattuabili,
inefficaci e, soprattutto ad alto rischio di deriva liberticida» ha
scritto dal
suo blog su Il Fatto quotidiano , Guido
Scorza, docente di
diritto delle nuove tecnologie. «Difficile astenersi dal ricordare ai
firmatari del disegno di legge » aggiunge Scorza, «che era il 2000
quando l’Unione europea stabilì un principio che è caposaldo di
civiltà, libertà e democrazia online diametralmente opposto a
quello che loro vorrebbero veder introdotto nel nostro ordinamento:
il divieto, per tutti i Paesi membri dell’Unione europea di imporre
ai cosiddetti “intermediari della comunicazione” qualsivoglia
obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati dai propri
utenti. Un divieto che ha una spiegazione semplice e di straordinaria
importanza: se lo Stato chiede a un soggetto privato di verificare
ciò che i propri utenti pubblicano attraverso i propri servizi,
questo soggetto, a tutela del proprio portafoglio, inizierà a
limitare e restringere la libertà dei propri utenti di dire ciò che
pensano online, sacrificando così l’idea che Internet possa
rappresentare quella grande agorà democratica – che non significa
né Far West, né zona franca senza regole – della quale tutti
avvertiamo un gran bisogno».
Giovanni Ziccardi,
professore di informatica giuridica all’università di
Milano, ritiene
il disegno di legge «inopportuno, pericoloso e
censorio» . «Nasconde le sue reali intenzioni
di controllo del dissenso. Lo trovo soprattutto impreciso, sia dal
punto di vista tecnico che giuridico. Punta a soffocare il dibattito
in rete caricando di responsabilità, burocrazia e sanzioni utenti e
provider. Dall’altra parte “salva”, per molti versi, i due
principali vettori di odio, notizie false e disinformazione di oggi,
cioè molti grandi media e politici. Ed equipara fenomeni eterogenei
tra loro che richiedono, invece, regolamentazioni specifiche. Infatti
nella relazione introduttiva si fa riferimento a “fake news”,
a espressioni che istigano all’odio e alla pedopornografia.
Tre universi molto diversi tra loro».
«Non voglio cercare di
indovinare le intenzioni dei deputati, ma stando a ciò che ho letto
mi pare una chiara deriva autoritaria, che sia voluta o
inconsapevole» dice Federico
Pistono , laurea in informatica, un master nel centro
ricerche della Nasa, scrittore e co-fondatore di Axelera, che si
occupa di divulgazione nell’ambito delle nuove tecnologie. «O sanno come funziona internet e
vogliono censurarlo o non sanno come funziona e sono incompetenti; in
entrambi i casi non va bene. Di fatto, si prevedono pene per chi
esercita il senso critico; per esempio, chi mette un dato vero e una
propria opinione che magari molti altri condividono ma che non è
mainstream, può venire processato e condannato per quello. Tutto ciò
non ha nulla a che fare con l’educazione e la sensibilizzazione
della popolazione a verificare le fonti di ciò che legge e a pensare
con la propria testa».
Nessun commento:
Posta un commento