domenica 13 agosto 2017

Con la Gambaro la libertà d'opinione fa un passo da gambero


Fonte: Terra Nuova

È stato assegnato all'esame delle Commissioni Affari Costituzionale e Giustizia del Senato il disegno di legge che prende il nome dalla sua prima firmataria, Adele Gambaro. Obiettivo dichiarato: lotta alle fake news. Ma è proprio così? C’è già chi ci ha visto profili di incostituzionalità, correttivi legislativi parziali e grossolani, pericoli per la libertà di opinione e di pensiero. Sono le preoccupazioni che alcuni tra costituzionalisti, giornalisti e attivisti hanno sollevato riguardo il Ddl Gambaro (QUI scaricabile il testo  ) che vorrebbe regolamentare la circolazione delle informazioni non veritiere online. Proposito teoricamente nobile, ma occorre definire molto bene i confini per non sconfinare nella censura travestita. A proporre una interessante analisi del testo di legge è Valerio Onida, ex giudice della Corte Costituzionale e già presidente della stessa Corte, nonché docente universitario ed ex presidente della Scuola superiore della magistratura.



«Si tratta di un testo superficiale e non idoneo a normare ciò su cui si propone di intervenire, cioè la “rete”, perché va addirittura a modificare i criteri di punibilità dei reati solo perché il mezzo usato è differente» spiega Onida. «L’articolo 21 della Costituzione è chiaro, parla di mezzi di diffusione del pensiero, quindi la rete, come la carta stampata, la televisione o la radio, deve avere gli stessi limiti e le stesse garanzie. Peraltro le norme esistono già, si tratta solo di individuare tecnicamente le modalità più idonee di applicazione. Ma partiamo dall’articolo 1: crea un nuovo tipo di reato, quello riconducibile alla circolazione di informazioni attraverso piattaforme informatiche o mezzi telematici, che viene differenziato nel trattamento rispetto all’analogo reato dell’articolo 656 del codice penale che colpisce “chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico”. Poi nel testo si introduce la novità della pena anche per informazioni che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o falsi. Ma chi verifica? Qui si introduce il “controllo pubblico” sulla verità o falsità dei dati ed è inaccettabile. Sulla base di quali criteri assoluti mai si potrà effettuare la verifica?  Peraltro, sempre l’articolo 1 introduce una disciplina speciale per la diffamazione, che però è già normata da codici e leggi. Anche qui ci si chiede il perché».

Controllo sulle opinioni
«L’articolo 2, poi, introduce aspetti pericolosi di controllo pubblico sulle opinioni e sulle idee», prosegue Onida. Si legge infatti che la pena della reclusione non inferiore a dodici mesi e l’ammenda fino a 5.000 euro sono previste anche per chi “svolge comunque un’attività tale da recare nocumento agli interessi pubblici o da fuorviare settori dell’opinione pubblica, anche attraverso campagne con l’utilizzo di piattaforme informatiche destinate alla diffusione online“. E qui si inserisce anche la preoccupazione di numerosi attivisti, associazioni e movimenti nazionali. «Temo che ci sia il tentativo da parte di un soggetto istituito di silenziare la società civile e le sue iniziative di controinformazione», dice Monica Di Sisto, vicepresidente dell’osservatorio sul commercio e il clima Fairwatch, che sta guidando la Campagna StopTtip in Italia.

«Per punire il procurato allarme o per combattere le notizie false le leggi esistono già. Penso, invece, al Trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale tra Europa e Stati Uniti, il Ttip, e alla sua copia in minore per interessi e fatturati che l’Europa ha sottoscritto e ratificato con il Canada, il Ceta, come tutti i trattati commerciali di ultima generazione. I loro testi sono riservati, noti solo ai team tecnici che se ne occupano. Nemmeno i Parlamenti e i Governi degli Stati membri sono obbligatoriamente coinvolti nell’andamento delle trattative. Per conoscerli a fondo è stato prezioso pubblicare tutti i documenti ufficiali che le realtà sociali, o altre fonti dirette o indirette, hanno via via sottratto alla loro segretezza. Questa attività, fortemente criticata da molti decisori politici, ha portato quasi 5 milioni di persone in tutta Europa a schierarsi contro la loro approvazione. Ha spinto, inoltre, l’Ombudsman europeo a imporre alla Commissione UE di rendere più accessibili i documenti, permettendone la lettura prima della loro approvazione, almeno ai parlamentari europei chiamati a votarli. Anche la senatrice Gambaro, per il suo ruolo istituzionale, è chiamata a garantire i diritti costituzionali nella sua forma più ampia e piena».

Attendibilità e verità
Ritornando al testo del disegno di legge, il professor Onida si sofferma anche sull’articolo 6, che fa riferimento al potenziamento della formazione professionale per i giornalisti per «prevenire il rischio di distorsione delle informazioni o di manipolazione dell’opinione pubblica». «Anche in questo caso si rischia di definire informazione solo ciò che sta bene al potere pubblico, che decide pure come presentarla», aggiunge Onida. «Anche l’articolo 7 ripropone un’inaccettabile controllo dall’alto di verità. Si mette in carico ai gestori delle piattaforme informatiche l’obbligo di verificare l’attendibilità e la veridicità dei contenuti diffusi. Ma com’è pensabile? È uno strumento di controllo autoritario e illegittimo. E suona analogo anche l’ultimo articolo del disegno di legge, il numero 8, che prevede che la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi monitori “gli standard editoriali delle piattaforme informatiche destinate alla pubblicazione e diffusione di informazione con mezzi telematici delle emittenti radiotelevisive pubbliche».

«Le ricette proposte dai firmatari del disegno di legge sono anacronistiche, inattuabili, inefficaci e, soprattutto ad alto rischio di deriva liberticida» ha scritto dal suo blog su Il Fatto quotidiano  Guido Scorza, docente di diritto delle nuove tecnologie. «Difficile astenersi dal ricordare ai firmatari del disegno di legge » aggiunge Scorza, «che era il 2000 quando l’Unione europea stabilì un principio che è caposaldo di civiltà, libertà e democrazia online diametralmente opposto a quello che loro vorrebbero veder introdotto nel nostro ordinamento: il divieto, per tutti i Paesi membri dell’Unione europea di imporre ai cosiddetti “intermediari della comunicazione” qualsivoglia obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati dai propri utenti. Un divieto che ha una spiegazione semplice e di straordinaria importanza: se lo Stato chiede a un soggetto privato di verificare ciò che i propri utenti pubblicano attraverso i propri servizi, questo soggetto, a tutela del proprio portafoglio, inizierà a limitare e restringere la libertà dei propri utenti di dire ciò che pensano online, sacrificando così l’idea che Internet possa rappresentare quella grande agorà democratica – che non significa né Far West, né zona franca senza regole – della quale tutti avvertiamo un gran bisogno».

Giovanni Ziccardi, professore di informatica giuridica all’università di Milano, ritiene il disegno di legge «inopportuno, pericoloso e censorio»  . «Nasconde le sue reali intenzioni di controllo del dissenso. Lo trovo soprattutto impreciso, sia dal punto di vista tecnico che giuridico. Punta a soffocare il dibattito in rete caricando di responsabilità, burocrazia e sanzioni utenti e provider. Dall’altra parte “salva”, per molti versi, i due principali vettori di odio, notizie false e disinformazione di oggi, cioè molti grandi media e politici. Ed equipara fenomeni eterogenei tra loro che richiedono, invece, regolamentazioni specifiche. Infatti nella relazione introduttiva si fa riferimento a “fake news”, a espressioni che istigano all’odio e alla pedopornografia. Tre universi molto diversi tra loro».

«Non voglio cercare di indovinare le intenzioni dei deputati, ma stando a ciò che ho letto mi pare una chiara deriva autoritaria, che sia voluta o inconsapevole» dice Federico Pistono  , laurea in informatica, un master nel centro ricerche della Nasa, scrittore e co-fondatore di Axelera, che si occupa di divulgazione nell’ambito delle nuove tecnologie. «O sanno come funziona internet e vogliono censurarlo o non sanno come funziona e sono incompetenti; in entrambi i casi non va bene. Di fatto, si prevedono pene per chi esercita il senso critico; per esempio, chi mette un dato vero e una propria opinione che magari molti altri condividono ma che non è mainstream, può venire processato e condannato per quello. Tutto ciò non ha nulla a che fare con l’educazione e la sensibilizzazione della popolazione a verificare le fonti di ciò che legge e a pensare con la propria testa».

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