Fonte: La Stampa
Africa e riscaldamento
globale, emblema delle disuguaglianze della nostra epoca: sono i
paesi ricchi a produrre gran parte dei gas serra, è l’Africa -
soprattutto quella sub-sahariana, e il poverissimo Sahel - a subirne
le conseguenze più gravi. Il continente ha una responsabilità
minima (tra il 2 e il 4% delle emissioni annuali di gas serra); ma la
sua temperatura, secondo quanto emerge da alcune ricerche delle
Nazioni Unite, aumenterà una volta e mezzo più rapidamente della
media globale, provocando condizioni meteorologiche sempre più
estreme, con effetti potenzialmente devastanti. Prolungate siccità
rischiano di esporre ad una penuria d’acqua fino a 250 milioni di
africani entro il 2020. E nel 2040, secondo la Banca Mondiale,
potrebbe deteriorarsi e divenire inservibile tra il 40 e l’80%
della superficie dell’Africa sub-sahariana destinata alla
coltivazione di cereali come grano e mais.
Già oggi, piogge scarse e irregolari
sono una minaccia costante per il Corno d’Africa e altre parti
dell’Africa orientale. La carestia somala del 2011, in cui morirono
250.000 persone, e l’attuale crisi alimentare del Corno sono da
attribuire a un prolungato periodo di siccità che ha portato
raccolti fallimentari, oltre a decimare il bestiame. Nell’emergenza
in corso, le ultime stime dicono che, tra Somalia, Kenya ed Etiopia,
14,4 milioni di persone soffrono di “acuta insicurezza alimentare”
e hanno bisogno di assistenza umanitaria immediata. Mentre quasi tre
milioni di somali sono già a un passo dalla carestia.
Particolarmente vulnerabile appare Il
Sahel, quella striscia di terra semi-arida appena sotto il deserto
del Sahara. Il cambiamento climatico agisce poi su un quadro politico
ed economico già molto precario. Vastissima - si estende dalla
Mauritania all’Eritrea - e in forte crescita demografica, la
regione conta oggi 135 milioni di abitanti, ma potrebbe averne 330
milioni nel 2050 e quasi 670 milioni nel 2100. Ogni anno, centinaia
di migliaia di migranti attraversano queste aree instabili e
impoverite per raggiungere il Nord Africa, e poi, eventualmente,
l’Europa. Il dibattito sul tema resta aperto, tuttavia, gran parte
degli studi sembrano concludere che l’aumento della temperatura -
più 3-5 gradi, entro il 2050; e forse 8 gradi alla fine del secolo -
renderà molte aree del Sahel ancora più inospitali, intensificando
la frequenza delle migrazioni. Secondo un documento dell’ African
Institute for Development Policy, l’aumento delle temperature
potrebbe causare un calo della produzione agricola che va dal 13% del
Burkina Faso al 50% del Sudan. Altre ricerche, più pessimiste,
ipotizzano autentiche apocalissi. Il Washington Post pochi giorni fa
ne ha citata una secondo cui il Sahel, a causa di una reazione a
catena innescata dallo scioglimento dei ghiacci artici, rischia di
inaridirsi completamente, costringendo ad emigrare centinaia di
milioni di persone entro la fine del secolo. Probabilmente la più
gigantesca migrazione nella storia dell’umanità.
Aldilà di previsioni che ci si augura
eccessivamente funeste, è chiaro che l’emergenza Sahel è
aggravata da una crescita della popolazione che appare oggi fuori
controllo. Anche le Nazioni Unite, di solito inclini ad un evasivo
linguaggio diplomatico, hanno detto che sfamare il Sahel sta
diventando una “missione impossibile”. Chi si occupa di
demografia è dello stesso parere, ma suggerisce di alleggerire la
pressione limitando le nascite. Tassi di natalità troppo alti sono
considerati un ostacolo allo sviluppo economico e sociale. Alcuni
paesi sembrano aver recepito il messaggio. Per esempio il Niger, dove
le donne partoriscono una media di 7,6 figli a testa, si è posto
l’obiettivo di raddoppiare l’uso di contraccettivi. Segnali
incoraggianti in una regione in cui la pianificazione familiare
continua però ad essere colpevolmente trascurata.
Eppure invertire questa tendenza è
possibile. Tutte le “tigri asiatiche” hanno registrato cali
repentini dei loro tassi di natalità fin dagli anni sessanta. Quando
alle donne vengono date opzioni realistiche di pianificazione
familiare, il numero di figli si riduce, anche piuttosto rapidamente.
In Bangladesh, paese islamico conservatore, oggi le donne hanno una
media di 2,2 gravidanze a testa. L’Islam quindi non è un ostacolo.
Quello che manca in Sahel è la volontà politica di affrontare il
problema. I governi locali sono colpevoli. Ma una parte di
responsabilità ricade anche sulla comunità internazionale. Le
Nazioni Unite, per esempio, in un recente documento per lo sviluppo
del Sahel, hanno ricordato l’urgenza della crisi e la necessità di
aiuti immediati. Senza però far mai menzione, in 45 pagine, né di
anticoncezionali né di pianificazione familiare.
Crescete e moltiplicatevi, lo dice la Bibbia ...e poi.... tutti in Italia, lo dice Soros
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