lunedì 2 maggio 2016

Una battaglia governativa contro la superstizione


Fonte: Repubblica

PECHINO - Ossa di tigre, bile di orso, pelle di manta gigante, corna di cervo e di rinoceronte: Pechino cancella dal menù animali in via di estinzione e piante rare, ma alla soddisfazione di chi ama la natura si oppone l'allarme di case farmaceutiche, medici e ricercatori che praticano la medicina tradizionale cinese. È uno scontro che imbarazza le autorità comuniste, impegnate a recuperare la millenaria identità nazionale, e che costringe i cinesi ad una scelta difficile, tra la tutela di animali e vegetali a rischio, e la fedeltà a pratiche mediche che sono alla base della cultura dell'Asia.

 

A far esplodere la "guerra dei maghi", come è stata definita dalla tivù di Stato, la decisione del governo di rendere ancora più stringenti le regole del 1988, che già vietavano di vendere e di consumare fauna e flora protetti dai trattati internazionali. Una lunga serie di scappatoie legali hanno in realtà permesso fino ad oggi di alimentare un mercato immenso di animali e di vegetali ad un passo dall'estinzione, trasformando la Cina nel nemico numero uno della tutela ambientale. L'ultima riunione del parlamento di Pechino aveva cercato di aprire nuovi varchi ad un business che vale decine di miliardi di euro all'anno. Il comitato permanente del partito, scosso dalle proteste interne e straniere, ha scelto invece di vietare sia il commercio della cacciagione che quello delle erbe selvatiche, anche sotto forma di farmaci e integratori alimentari. Di qui la rivolta di industrie, medici ed erboristi: se il bando sarà fatto rispettare, a scomparire dopo millenni sarà proprio la medicina tradizionale cinese, premiata con l'ultimo Nobel.

Secondo l'associazione cinese che rappresenta il settore, il nuovo divieto renderà impossibile la preparazione di oltre il 90% dei rimedi tradizionali, che per almeno 800 milioni di cinesi residenti nelle campagne costituiscono l'unica opportunità di curarsi. Il braccio di ferro riguarda in particolare gli estratti di tigre, orso, pangolino, tartaruga e rinoceronte, ma pure una decine di erbe che crescono solo in Himalaya. Pechino cerca ora una mediazione, convincendo industriali, scienziati e commercianti ad usare sostanze estratte da animali d'allevamento e piante coltivate. A rafforzare le proteste sono però gli stessi pazienti, che denunciano come i prezzi dei farmaci tradizionali rischino di schizzare alle stelle, arricchendo trafficanti e contrabbando.

 
Il presidente Xi Jinping, preoccupato dall'immagine globale della Cina, non farà concessioni e ha invitato i cinesi a "curarsi senza più distruggere la natura" e a "guardare con maggiore attenzione i progressi della chimica". Addio dunque alle pozioni da alchimisti e non solo per ragioni di opportunità politica. Tradito il tè per il caffè, la leadership rossa sa che i cinesi in realtà hanno già consumato lo storico strappo: da anni sono in fuga dalla medicina tradizionale, diretti in massa verso i farmaci chimici importati dall'Occidente. A rivelare la crisi dei rimedi naturali, l'ultimo rapporto della Borsa che a Pechino quota erbe e animali usati per le pozioni. Nel 2015 i prezzi sono crollati, assieme a consumo ed esportazioni. Secondo la Camera di commercio nazionale, anche nei primi tre mesi del 2016 l'export di medicine tradizionali è precipitato del 11,9%, dopo il meno 13% segnato nel 2014. La domanda interna segna addirittura un meno 17% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.

Un ingrediente popolare come il ginseng, nel 2013 veniva venduto a 145 dollari il chilo: in questi giorni, nonostante l'allarme sul futuro del settore, fatica a trovare clienti disposti a pagarne 40. I fiori di crisantemo, usati per le tisane, sono scesi da 10 a 2 euro chilo, perdendo l'80% del valore. Secondo il più importante sito cinese specializzato in medicina naturale, nel paniere dei 200 prodotti più diffusi, negli ultimi sei mesi 11 hanno dimezzato il prezzo, 183 sono calati di meno del 10% e solo 6 sono rimasti stabili, o sono aumentati.

 
Due anni fa il settore, solo in Cina, fatturava annualmente 12 miliardi di euro, che salivano a quasi 60 considerando il resto dell'Asia. Nel 2016, dopo lo stop al commercio delle specie protette, il giro d'affari minaccia di scendere del 70%. Tutela della natura e presentabilità politica, ma anche rigore della scienza. "Prima di tutto dobbiamo convincere la popolazione - ha detto Zhang Xiaohai, della Ta Foundation - che i rimedi tradizionali non sono efficaci contro le malattie acute, o contro quelle che possono diventare incurabili. Il alcuni casi rappresentano al massimo una prevenzione da patologie croniche legate all'invecchiamento". Secondo le autorità cinesi gli stessi princìpi attivi estratti da animali a rischio e piante rare, sono presenti anche in altri organismi viventi. Di qui lo stop a quella che il Quotidiano del Popolo ha definito "anacronistica strage senza più senso": e contro il dolore, anche per il 92% dei cinesi, compressa occidentale batte già tisana asiatica dieci a zero.

[N.d.R. Articolo segnalato da Francesco Spizzirri] 

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