Fonte: Corriere della sera
Pochi
giorni fa mi è capitato di vedere un filmato su Raidue, nell’ambito
del programma Cronache animali, che mi ha profondamente turbato.
Illustrava le condizioni dei cani della colonia penale dell’isola
di Gorgona — protagonisti fino a un anno fa di un coraggioso e
importante progetto di rieducazione terapeutica dei detenuti —
trasformati ormai in macilenti scheletri chiusi in un recinto. Conosco questa realtà da diversi anni grazie all’amicizia con
Marco Verdone, per venticinque anni coraggioso veterinario
dell’isola, e alle fotografie di un’altra mia cara amica
austriaca, Rachele Zecchini, che ha saputo testimoniare su giornali
italiani ed europei questo meraviglioso esperimento di cooperazione
tra umani e animali che aveva dato, seppure per poco tempo, risultati
davvero sorprendenti, con un tasso di recidiva e un consumo di
farmaci e psicofarmaci tra i detenuti assai inferiore alle carceri
«chiuse».
L’isola di Gorgona,
infatti, oltre ad essere un paradiso naturalistico inserito nel parco
dell’Arcipelago Toscano, è stato fino al 2015 — quando la
gestione del carcere, da realtà autonoma è diventata una Sezione
distaccata del carcere di Livorno — anche un paradiso
penitenziario. A Gorgona infatti si trova una delle ultime colonie
penali agricole italiane, colonia che, negli ultimi anni, è stata
oggetto di una profonda riflessione sugli esiti della violenza in
campo rieducativo. Violenza non sui detenuti, ma sugli animali da
loro accuditi. È giusto, ci si è chiesto, se persone che hanno
avuto a che fare nella vita, a livelli diversi, con la violenza, si
trovino, nel loro percorso rieducativo, a esercitarla ancora una
volta, macellando gli animali a loro affidati? Da questo percorso è
nato il progetto L’isola che c’è (www.ondamica.it) ispirato alla
non violenza e al rispetto dell’alterità umana e animale, che ha
portato alla chiusura nel 2014 — anche per grosse carenze igienico
sanitarie — del macello presente da sempre sull’isola, chiedendo
in contemporanea un decreto di grazia per gli animali sopravvissuti.
Animali che, nel tempo, sarebbero stati «adottati» da varie
scolaresche toscane per rendere ancora più consapevole la tutela e
il rispetto di queste creature.
Ma questo idillio,
purtroppo, è durato poco. Nel 2015, dopo cinque lustri di attività,
Marco Verdone è stato trasferito, seguito subito dopo dal direttore
del carcere, Carlo Mazzerbo, che appoggiava entusiasticamente
l’esperimento. Con la nuova direzione, a Pasqua 2016 il macello è
tornato in attività. Gli animali dunque sono tornati ad essere da
«cooperatori della rieducazione» a normale carne da consumo. Non
posso non chiedermi: che senso ha tutto questo? In un Paese come il
nostro che riceve continue ammonizioni dall’Europa per il
trattamento diseducativo del nostro sistema carcerario, avevamo un
progetto pilota da ammirare e copiare. Ora questo gioiello lo abbiamo
annullato per mere questioni economiche. «Gli animali che non
producono, costano», sostiene la nuova direzione. Ma non tutto nel
mondo può essere economia. Certo pensare di far morire tutti gli
animali di morte naturale ha il sapore di un’utopica follia ma
forse, in una realtà piccola e motivata come questo, l’utopia
potrebbe trasformarsi in segnale di speranza.
Per questo avevo deciso di firmare l’appello che accludo, che aveva trovato sostenitori in molti politici di tutti gli schieramenti, ricevendo già diversi appoggi a livello istituzionale. Ma, malgrado le buone intenzioni, come spesso accade in Italia, tutto sembra essersi di nuovo fermato. Peccato. Prima o poi bisognerà riuscire a capire perché, quando facciamo qualcosa di buono, in poco tempo lo rendiamo vano.
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