Ciò che colpisce di più in queste
foto è l'uniformità dell'abbigliamento. Spariti da tempo i vestiti
tradizionali, gli uomini d'estate indossano orribili pantaloncini
sportivi di fabbricazione cinese e di fibra sintetica. Anche fra i
colori delle braghe non c'è molta scelta. Evidentemente, i malgasci
della brousse li trovano pratici, ma anche economici perché i
pantaloni corti in cotone costano di più. Siccome l'economia è di
pura sussistenza, i lavori compiuti dagli uomini sono l'agricoltura,
la pastorizia e la pesca, specie se il villaggio è stato costruito
nelle vicinanze del mare, ma ciò non significa che il pesce non sia
disponibile nei paesi dell'entroterra. Anzi, in tal caso si creano
posti di lavoro perché molte donne dei villaggi di pescatori
s'incaricano di andare a venderlo nei villaggi lontani dal mare,
facendo le pendolari con i pick-up brousse, con le carrette trainate
dagli zebù o anche a piedi, con la bacinella sulla testa. Verso le
tre di notte, già cominciano i preparativi per mettere in mare le
piroghe. Roba da maschi. Poi, nella mattinata, in un orario che
dipende dal successo della pesca, gli uomini rientrano per affidare
il carico di pesce alle loro donne, che ne useranno una parte per
nutrire la famiglia e il resto per il business. C'è un detto, a
proposito dei Vezo, secondo cui essi mangiano solo pesce e disdegnano
il pollo. Non credo sia del tutto vero. Non ho verificato.
Toriany, il più anziano dei quattro
uomini qui raffigurati, è morto recentemente nel villaggio dove
abitava: Besely Nord, che è anche il luogo di nascita di Tina. Non
so di cosa sia morto, ma quando la gente arriva ai settant'anni, è
già matura per la tomba. L'altro signore con i pantaloni blu, la
maglietta e la lancia, si chiama Egilato. Degli altri due, con le
braghe rosse, il più anziano è Masimbahatse. L'ultimo non so. Tutti
sono originari di Besely Nord e dintorni, ma non credo facciano i
pescatori poiché il villaggio dista tre Km dal mare. Deduco quindi
che di mestiere coltivino mais stentato, che non supera l'altezza di
un metro, manioca e fagioli. Il problema nella brousse è la mancanza
d'acqua. Difficoltosa quindi l'irrigazione. I pochi pozzi scavati
sono continuamente presi d'assalto da donne e ragazze, che tirano su
l'acqua abilmente con i secchi calati mediante corde. Sui bordi del
pozzo circolare ho notato spesso i segni lasciati dall'usura, cioè
dallo sfregamento della corda sul bordo friabile. Nei mattoni si
creano dei veri e propri solchi.
Una grande comodità sarebbe avere
vicino casa uno “chateaux d'eau”, letteralmente castello d'acqua,
in francese. Una pompa immersa in un pozzo terrebbe il serbatoio
sempre pieno e l'acqua, grazie alla forza di gravità, fluirebbe
attraverso le tubature fin dentro casa ed eventualmente negli orti
per bagnare le piante. Nessuno nella brousse, dati i costi, potrebbe
permettersi una cosa del genere. Solo i vazaha lo farebbero, nel caso
in cui decidano di costruirsi una villetta in posti così disagevoli.
La gente normale preferisce attingere l'acqua come si è sempre
fatto: secchi, corde, taniche e bidoni in plastica da 100 litri, da
tenere costantemente pieni per avere sempre acqua a disposizione.
Quelli che vogliono spendere qualcosa in più, si comprano una comoda
carriola per alleviare alle donne di casa la fatica del trasporto
delle taniche dal pozzo al villaggio.
Tutto questo però sarebbe risolto se a
costruire un acquedotto fossero le autorità statali, come avviene
nei paesi del nord del mondo, ma in Madagascar, vuoi per la
corruzione dei funzionari, vuoi per la loro ignoranza, vuoi per la
mancanza di denaro, di acquedotti io nella brousse non ne vedo.
Ognuno deve arrangiarsi meglio che può. Non resta che tirare avanti
secondo i binari dell'abitudine, guadagnandosi da vivere con le
unghie e con i denti, ma facendolo senza sforzo, come se fosse una
cosa naturale. La sera, poi, dopo aver zappato la terra sotto il sole
per tutto il giorno e dopo aver pascolato il gregge di capre, gli
uomini si riuniscono sotto l'immancabile tamarindo e cominciano a
bere il toakagasy che, con i suoi 60 gradi, è il rhum di
fabbricazione artigianale più diffuso, oppure il rhum mena (rhum
rosso), se a qualcuno gli affari sono andati bene e vuole festeggiare
con gli amici. Se un vazaha si siede con loro, tutti si aspettano
che paghi da bere: deve scontare il privilegio di essere nato nella parte giusta del mondo. Oppure, se non altro, perché non ha dovuto sudare sotto il
sole nel campo di mais, né ha dovuto girovagare con capre ribelli e
puzzolenti alla ricerca di qualche filo d'erba spinosa.
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