Testo di Salvatore Antonaci
Uno
schiaffone in piena faccia. Questa l’immagine, un poco a tinte forti, con la
quale potremmo sintetizzare l’esito del referendum svizzero in tema di
immigrazione.
Si
trattava dell’iniziativa popolare del partito della destra
nazional-conservatrice UDC dal titolo, come al solito concreto fino alla
brutalità, “contro l’immigrazione di massa”. In realtà, l’obiettivo dei
promotori è meno draconiano di quel che potrebbe apparire: nessuna espulsione
di massa o revoche di cittadinanza alle viste, ma una reintroduzione del
controllo confederale sulla materia attraverso il meccanismo delle “quote” e la
contestuale rinegoziazione del trattato di libera circolazione delle persone al
quale anche la Svizzera ha aderito, dopo laboriose trattative ed un altro voto
popolare nel 2002.
In
questi termini la proposta è sembrata, perlomeno alla risicata maggioranza dei
favorevoli nelle urne, più una questione di buonsenso che una pericolosa deriva
populista come era stata dipinta dall’insieme di partiti, sindacati ed
organizzazioni imprenditoriali svizzere e dall’interessata burocrazia
continentale sempre più ansiosa di stringere nel proprio abbraccio mortale la
riottosa nazione alpina.
Fino
a poche settimane or sono il destino del quesito sembrava scontato: un netto
rifiuto previsto ed avallato da tutti i centri di potere, in primis dal
Consiglio Federale, dalle burocrazie di cui sopra e dai media liberal e
compiacenti. Ma coll’incedere della campagna elettorale l’inopinato
capovolgimento si è consumato sotto gli occhi dei tanti increduli spettatori
interessati. Doppia maggioranza, quindi, come richiesto: 15 cantoni contro 9
(percentuali clamorose per il Ticino vicino al 70%) e voto popolare seppure per
un’incollatura: poche migliaia di voti. Decisivo il voto bernese che ha
rovesciato il tradizionale consenso progressista proveniente dalle grandi città,
Ginevra, Basilea e Zurigo. La Svizzera profonda (tedesca) più il frontaliero ed
italofono Ticino hanno regalato percentuali molto alte ai partigiani del Sì;
per contro la Romandìa francofona si è espressa in senso contrario. Come su
scritto non è stato sufficiente l’appoggio dei principali centri urbani a
recuperare il gap tra le due parti.
Mai
come in questa occasione il fossato che divide due diverse visioni della società
e dei rapporti con il resto dell’Europa è apparso tanto netto. Tuttavia, a ben
ponderare la cosa, si può notare che, mutatis mutandis, la vecchia
contrapposizione tra conservatori e progressisti che ha attraversato gli ultimi
due secoli della storia svizzera non è mai veramente venuta meno e si è, anzi,
approfondita tutte le volte che il popolo veniva chiamato a decidere su issues
classificabili, cum grano salis, come “ideologiche”. Così è stato per il
referendum sui minareti di qualche anno addietro, così è oggi nel caso dell’immigrazione.
Solo
un rigurgito identitario, dunque?
No. Nel verdetto di oggi c’è anche il tentativo di dare una risposta a dei problemi concreti che si sono manifestati negli ultimi anni e che una porzione maggioritaria (seppure, lo ripetiamo, di strettissima misura) della popolazione ha ritenuto di controbattere in questo modo, ovvero seguendo i consigli di un partito politico per certi aspetti, magari, controverso, ma che di certo ha dimostrato di avere in diverse circostanze il polso della situazione ben più di altre realtà consolidate. Da domani, ad essere facili profeti, la grande community di analisti, commentatori, politologi si interrogherà sui motivi di questa clamorosa dèbacle dell’ortodossia politicamente corretta e dell’opposto trionfo degli “isolazionisti”. Un esercizio dal quale ci asterremo lasciando l’incombenza a ben più alacri ed esperti professionisti dell’esegesi politica e sociologica. In attesa di dibattere del prossimo campanello d’allarme per uno status quo giunto drammaticamente al capolinea.
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