lunedì 11 novembre 2013

Viaggio notturno di un turista errante d’Eurasia

 
Nietzsche diventò pazzo, o forse lo era già quando abbracciò il collo del cavallo bastonato e si mise a piangere: io mi sentii male quando scappai con le sterne inseguito dal guidatore di pousse pousse, ma feci piangere Tina. E mi sentii ancora più male qualche giorno dopo, viaggiando di notte su un taxi-brousse alla volta di Tanà, quando, durante una sosta ad Ambohimahasoa, sentii belare una pecora. Non riuscivo ad individuarne la provenienza a causa dell'oscurità. C'erano altri taxi-brousse parcheggiati davanti all'osteria, da cui usciva un po’ di chiarore. Anche Tina era scesa e si era messa a fare shopping tranquillamente, alla luce delle lampade a petrolio, presso le bancarelle dall'altra parte della strada. Aguzzai la vista, alzai gli occhi e, nella penombra, le vidi. Fu come una botta, un tuffo al cuore, come quando al telegiornale si sente la notizia di qualche violenza sui bambini. Due pecore erano state legate sul portapacchi di un pulmino bianco, dietro la montagna di bagagli coperti dal telone. Una teneva la testa penzoloni oltre il bordo, l'altra ce l'aveva ritta e di tanto in tanto emetteva la sua flebile richiesta d'aiuto. Io mi sentii cadere addosso il peso dell'impotenza e rimasi muto, impietrito. Gli altri passeggeri mangiavano nell'hotely, si sgranchivano le gambe o curiosavano fra i banchi dei venditori come niente fosse.


Leonard Hawksley, zoofilo inglese stabilitosi in Italia, che all'inizio del Novecento ebbe otto attentati alla sua vita per essersi opposto alla crudeltà sugli animali, sarebbe corso a liberarle, ma io non mi chiamo Leonard Hawksley e, come la vecchietta piangente di Fianarantsoa mi aveva fatto sentire spietato e crudele, le pecore di Ambohimahsoa mi hanno fatto sentire vile e meschino, cioè praticamente una merda. Non era colpa delle pecore, naturalmente, ma dell'arretratezza culturale dei malgasci e, di conseguenza, della mancanza di leggi contro il maltrattamento di animali. In Italia abbiamo uno striminzito articolo 727 del Codice Penale (e si potrebbe avere di più e di meglio), in Madagascar, suppongo, niente di niente. Da noi al valico di Brogeda e di Tarvisio la Guardia di Finanza ha sequestrato cagnolini stipati malamente dentro i furgoni e i forestali spesso sequestrano uccelli protetti, in Madagascar poliziotti e gendarmi sono impegnati unicamente a taglieggiare quanti circolano sulle strade. Mirko, incontrato a Udine dopo il rientro in patria, mi disse di aver fotografato alcune capre imbracate sul portapacchi del taxi-brousse come le mie due pecore, segno che il fenomeno è generalizzato.
                                                                                                                                                  

Finché portano biciclette e scooters sul tetto dei pulmini, si può ammirarli per la loro bravura, ma qui stiamo parlando di esseri viventi, capaci di soffrire, e anche polli, oche e tacchini devono vedersela brutta, stipati e pur essi trasportati sul portapacchi per molte ore di viaggio, sotto il sole e la pioggia, dentro i cesti di fibra vegetale. Al pollame buttato per terra al mercato sotto il sole dei tropici, con le zampe legate, non sono mai riuscito ad abituarmi, specie a quelli in attesa col loro schiavista davanti alla porta di servizio dei ristoranti: da quella porta, da un momento all'altro, uscirà il cuoco, che sceglierà le sue vittime.
Robinson Crosue, nascosto dietro una duna, quando capì cosa stava per accadere a due prigionieri sbarcati sulla spiaggia insieme ai loro carnefici, non ebbe dubbi. E sparò sui cannibali, salvando quello che poi sarebbe diventato Venerdì.

Io che so essere, soprattutto i vazaha, mandanti della quotidiana carneficina, grazie al principio che è la domanda a creare l'offerta, a chi e con quali armi devo sparare?
Forse dovrei fare come i pionieri della zoofilia, come gli Hawsksley e gli Schweitzer, rimboccarmi le maniche e aprire una sede della Protezione Animali ad Ambohimahasoa, tentando di mitigare i feroci costumi dei malgasci. Probabilmente dovrei cercare, come un missionario, di far crescere quella chimera chiamata Civiltà, quell'araba fenice di cui tutti conoscono l'esistenza, ma che nessuno sa di preciso dove sia. Dovrei. Dovrei in definitiva cambiare il mondo (e ci sarebbe un'immensa mole di lavoro da fare) pur sapendo che, per la gente per bene, è da idioti volerlo cambiare.

Il viaggio riprese, da Ambohimahasoa e, seduto scomodamente in fondo al taxi-brousse con a fianco Tina che cercava di dormire, a ogni sussulto pensavo ai sobbalzi del pulmino bianco e alle scosse e alle botte e al dolore da decubito delle due povere pecore. Tanto per gradire, attraversando un centro abitato, improvvisamente la nostra vettura fece una frenata brusca, scaraventandoci tutti avanti, e poi si sentì "TU-TUM", con un sobbalzo, seguito immediatamente da un altro, "TU-TUM": mi voltai per vedere attraverso il lunotto posteriore, nel buio della notte. Il pulmino proseguì. Non vidi nulla. Non si sentì alcun guaito, ma io sapevo.

Tina riprese a dormire. Quel viaggio allucinante non era ancora finito. Capita spessissimo che i pulmini, a causa delle strade sconnesse e della scarsa manutenzione, si guastino lungo la strada, costringendo i passeggeri a lunghe attese. In quei casi scattano meccanismi di solidarietà e gli autisti degli altri taxi-brousse si fermano per prestare attrezzi o per dare un passaggio al guidatore che va in città a comprare qualche pezzo di ricambio. Esattamente questo mi capitò il primo dicembre sulla route nationale numero cinque e per fare trecento chilometri impiegai tutta la giornata.
                                                                                                                                                  

La notte delle pecore, notte da tregenda per il mio sistema nervoso, nonché una Caporetto per la stima che avevo di me stesso, andò in modo diverso. Quando il nostro taxi-brousse rallentò vidi, nel chiarore dei fari, attraverso il finestrino, ciò che non avrei mai voluto vedere. "Piccinini, piccinini", esclamò Tina prendendomi per un braccio. Quella era l'espressione che usavo quando incontravo animaletti di ogni sorta, e lei me l'aveva sentita ripetere parecchie volte.

Anche lei aveva visto il pulmino bianco adagiato su un fianco, nel fosso, con tutti i passeggeri incolumi già scesi. Tutti tranne due, ancora imbracati sul portapacchi. Il nostro taxi-brousse si fermò un attimo a motore acceso, lo chauffeur parlò con qualcuno attraverso il finestrino, nessun passeggero scese, Tina taceva, io toccavo il fondo della mia  infingardaggine.
Pregai Dio di distruggere la razza umana, errore della creazione, il più presto possibile, me compreso.
Ma Dio non fa sbagli, né interviene a salvare due pecore legate a un portapacchi. Mancava poco per arrivare a Tanà. Ormai albeggiava.

2 commenti:

  1. Belle foto... a parte il cane .. storie di animali sui tetti degli autobus e non solo di animali, nel senso che ci salivano anche le persone, le ho sentite raccontare anche dai miei genitori ai tempi della loro gioventù...più ancora dei nonni.. erano cose normali... beati loro... per fortuna qualcosa mi è toccato di quella vita li... quando ero una bambina, abitavamo in periferia, e mio padre aveva un Furgoncino Ape 50 e a volte mi portava con lui e io volevo stare nel cassone dietro ... e quando pioveva mi mettevo un telo di nylon addosso... era spassosissimo...

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