sabato 10 gennaio 2015

Trafficanti di alberi

 

(terza parte)

Per andare da Antalaha alla foresta - dove per foresta s’intende il Parco nazionale di Masoala, il più esteso del paese - bisogna intraprendere un viaggio lungo e faticoso. Il confine sudoccidentale del parco è segnato dalla Baia di Antongil, dove tra luglio e settembre partoriscono le megattere. Nel ventre selvaggio di questa foresta pluviale di 235 mila ettari, la perseveranza del visitatore può essere ripagata da straordinarie apparizioni di orchidee, piante carnivore, aquile serpentarie, sfolgoranti camaleonti di Parson o lemuri come il vari rosso. Masoala offre una varietà apparentemente infinita di erbe medicinali, bacche selvatiche e legna da ardere per gli abitanti dei villaggi, che si recano quotidianamente a piedi nudi nella foresta, cantando o chiacchierando. I giovani che vengono dalla città per affari, invece, sembrano smarriti in questo umido e misterioso groviglio di vegetazione.


Campeggiano in piccoli gruppi vicino agli alberi che hanno selezionato per il taglio, cibandosi di riso e caffé per settimane. Poi appare il capo che, dopo aver ispezionato gli alberi, dà l’ordine di abbatterli. I tronchi vengono tagliati a colpi d’ascia. Nel giro di poche ore si abbatte un albero che magari aveva messo radici 500 anni prima. I taglialegna rimuovono con le asce tutta la parte esterna del tronco finché rimane solo il caratteristico cuore violaceo. L’albero viene quindi ridotto in ceppi lunghi circa due metri. Un altro gruppo di due uomini imbraca ciascun ceppo con delle corde e lo trascina attraverso la foresta fino alla sponda del fiume, un’impresa che richiede due giorni e viene pagata tra gli 8 e i 16 euro a ceppo, a seconda della distanza percorsa. Avanzando con difficoltà nella foresta, mi imbatto di tanto in tanto in due figure che trascinano stoicamente un ceppo di 180 chili a cui fanno scalare pendii impossibili, discendere cascate e attraversare acquitrini simili a sabbie mobili: uno sforzo di proporzioni bibliche, se non fosse che i due lo fanno per soldi.     

Come per soldi (20 euro a ceppo) lo fa il tizio che i due incontreranno al fiume, che legherà il ceppo a una zattera fatta a mano con la quale supererà le rapide. Per soldi (9,5 euro a ceppo) lo fa anche il conducente della piroga che attende la zattera dove le acque tornano calme. Per soldi (160 euro per due settimane) lo fa la guardia forestale che i signori del legname hanno corrotto perché si tenesse alla larga. E per soldi (16 euro a testa) lo fanno anche i poliziotti ai posti di blocco sulla strada che porta ad Antalaha. Il danno alla foresta è di gran lunga più grave della perdita del prezioso legname: per ciascuno di quei ceppi di legno di rosa vengono abbattuti quattro o cinque alberi dal tronco più leggero, con i quali viene fabbricata la zattera che porterà il pesante ceppo a valle.

L’uomo che ha incantato l’Occidente con la promessa di una nuova era di coscienza ambientale e con lo slogan “Madagascar naturellement”, è Marc Ravalomanana, ora deposto, un ex venditore di yogurt asceso alla carica di sindaco della città di Antananarivo che ha poi rovesciato il presidente socialista Ratsiraka e fondato, nel 2002, il partito politico “Tiako I Madagasikara” (Io amo il Madagascar). L’ex presidente ha costruito strade e ospedali, ha distribuito divise scolastiche e ha reciso il cordone che ancora legava simbolicamente il paese alla Francia colonialista adottando come valuta nazionale l’ariary malgascio al posto del franco. Ravalomanana ha anche rafforzato il bando contro l’agricoltura “taglia e brucia” (si direbbe, purtroppo, senza alcun risultato), ha annunciato il Madagascar Action Plan, un piano d’azione per promuovere la salvaguardia della biodiversità del paese, e si è impegnato a triplicare la superficie delle aree protette dell’isola. Sue dichiarazioni come “La nostra risorsa più importante è l’ambiente” suonavano come musica alle orecchie della comunità verde.

Purtroppo, nella realtà, sotto il tavolo del presidente venivano messi in atto “piani d’azione” di tutt’altro genere: Ravalomanana è stato accusato di aver confiscato ai baroni del legname legno di alberi già abbattuti per venderlo per profitto personale. In presenza di testimoni, avrebbe preteso il 10 per cento dei costi esplorativi di una compagnia petrolifera. E man mano che il portafoglio del presidente si gonfiava, crollava il potere di acquisto dei suoi connazionali. Il 7 febbraio 2009, migliaia di manifestanti hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale, ma sono stati accolti dalle fucilate, che hanno lasciato sul terreno 30 morti. Un mese dopo l’esercito si è rivoltato contro Ravalomanana, che è fuggito nello Swaziland. Appena esiliato, l’ex presidente è stato dichiarato colpevole di aver confiscato lotti di terreno comunale per affari di famiglia e di aver utilizzato fondi pubblici per acquistare un aereo da 50 milioni di euro.

La comunità internazionale si è rifiutata di riconoscere il nuovo governo guidato da un altro ex sindaco di Antananarivo, il trentaquattrenne Andry Rajoelina. Banca Mondiale, Onu, Usaid e altri donatori hanno revocato i finanziamenti. Alcuni paesi occidentali hanno cominciato a sconsigliare ai propri cittadini di recarsi nel paese, e a quel punto la “svolta verde” di Ravalomanana ha subito una netta inversione di tendenza: il nuovo governo non aveva più fondi da investire per applicare le norme in vigore nelle aree protette. Ma qualcuno aveva motivo di festeggiare per ciò che stava accadendo. Il 17 marzo 2009, giorno in cui Marc Ravalomanana rassegnava le sue dimissioni, una folla di non meno di 20 mila persone si riuniva nello stadio di Antalaha, dove venivano arrostiti 12 zebù, la birra scorreva a fiumi e la gente ballava tutta la notte al ritmo di musica dal vivo. Tanto, a pagare il conto ci pensavano i 13 baroni del legname della zona. Da quel giorno, la foresta non era più protetta. La foresta era loro.

Il magnate del legno siede su una sedia di palissandro, davanti a una scrivania d’ebano, in una stanza con pareti, soffitto e pavimento di palissandro. Anche se le sue origini sono cinesi (i suoi genitori sono emigrati dalla Cina negli anni Trenta) e dichiara che «i cinesi vanno matti per il palissandro», lui, che è nato vicino ad Antalaha, ha un debole per il palissandro di colore più scuro. Il suo ufficio è saturo del profumo di vaniglia proveniente dall’attiguo magazzino, e invaso dal ruggito delle seghe proveniente dal suo deposito, dove giacciono in piena vista cataste di tronchi di legno di rosa. 

Lui si chiama Roger Thunam, ed è ritenuto da molti uno dei più grossi commercianti di legno di rosa del Madagascar. È un uomo di mezza età dai lineamenti asiatici, non particolarmente alto. Porta gli occhiali, e ha quella padronanza di sé tipica di coloro che detengono il potere. La piccola comunità di immigrati cinesi dell’isola si è perfettamente integrata con la gente del luogo, e Thunam ne è la prova: ad Antalaha è stimato e rispettato, è sempre pronto a dare una mano se un contadino non sa come pagare un funerale ed è una persona utile da conoscere se si cerca un lavoro ben pagato. Ma per quanto il processo di produzione del legname comporti il pagamento di diverse prestazioni (i taglialegna, gli uomini che trasportano i ceppi fino al fiume, quelli che li aspettano con le zattere, quelli che spingono le piroghe, l’intermediario, gli autisti dei furgoni e tutti i poliziotti che si incontrano lungo la strada che conduce ai porti di Iharana e Toamasina), la gran parte dei proventi va a uomini come lui, che, confessa, non ricorda l’ultima volta che è stato nella foresta.

«Thunam non è un uomo d’affari, è un trafficante», dice un funzionario locale. «Taglia quello che non è suo. Ha rubato dal parco, che è pubblico. E adesso altri pensano che sia legittimo prendersi ciò che è proibito prendere». Naturalmente, Thunam fornisce un’altra versione dei fatti. Nato professionalmente nel settore della vaniglia, ha allargato la sua attività al campo del legname 30 anni fa. Da allora, dice, il governo gli ha concesso varie licenze.

In effetti, il governo ha sempre sospeso il bando contro l’esportazione del legno di rosa nei periodi in cui i cicloni devastavano la foresta lungo la costa orientale dell’isola, in modo che si potessero abbattere e smerciare gli alberi danneggiati dalle intemperie. Questa politica ha permesso ai baroni di accumulare scorte di legname tagliato illegalmente nei periodi in cui il bando è attivo e di venderli come legname “recuperato” nei periodi in cui il bando viene revocato. Una scappatoia che incoraggia ulteriormente il taglio illegale nei parchi nazionali, dove si trova gran parte degli alberi che danno legno di rosa.
Thunam insiste nel dichiarare che taglia solo alberi che gli è permesso tagliare. E se il suo deposito in questo momento è pieno di tronchi di legno di rosa, lui è in grado di spiegare il perché: «Non può immaginare quante persone taglino alberi là fuori. Sono gli stessi che prima praticavano l’agricoltura taglia e brucia. Non sono mai andati a scuola. Non si preoccupano delle generazioni future. Sono loro i distruttori... Ma questo legname che vede è già tagliato. Se non siamo noi a comprarlo da loro, lo farà qualcun altro».

Thunam riconosce che i cinesi, con la loro fissazione per il legno di rosa, «sono i maggiori acquirenti». (Una sala da pranzo in legno di rosa prodotta in Cina si vende a più di 4.000 euro.) E anche quando il nuovo governo ha concesso una revoca temporanea del bando, terminata nell’estate del 2009, i cinesi hanno continuato a passare ordini a Thunam. Lasciare tutti quegli affari alla concorrenza lo avrebbe danneggiato, spiega. «In sei mesi saremmo diventati una piccola azienda».

Per Risy Aimé, sindaco di Antalaha, fermare l’abbattimento degli alberi è facile: «Basta arrestare 13 persone», dichiara, riferendosi a Roger Thunam e agli altri baroni del legname. Occasionalmente il governo ci ha provato, incriminando i baroni sospettati di commercio illegale. Ma questi commercianti detengono un grande potere, e sono stati in grado di trarre vantaggio dalla confusione giuridica in materia di taglio del legname. Secondo un rapporto di Global Witness e dell’Environmental Investigation Agency, Thunam è uno dei due baroni (su sei casi noti) riconosciuti colpevoli di aver esportato legno di rosa. È stato rimesso in libertà nel 2008 dopo aver risarcito i danni attraverso un accordo extragiudiziario, incriminato di nuovo nel 2009, e alla fine giudicato innocente. Oggi siede alla sua scrivania d’ebano che domina un deposito di legname brulicante di attività. 

[Fine terza parte - Prima parte QUI]

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