Non me lo sarei mai aspettato. Ho cominciato a preoccuparmi quando, arrivato nei pressi della collinetta, subito dopo il ponticello in legno, ho notato una grande pozzanghera che la costeggiava, occupando lo spazio per buona parte del sentiero su cui passano pedoni e cicloescursionisti. C’era addirittura quello che credo fosse un marangone, subito inabissatosi al mio arrivo e mai più riemerso. Siccome so che sott’acqua nuotano per lunghi tratti, non sono stato ad aspettare che riaffiorasse, anche perché a quel punto avevo fretta di vedere in che condizioni era la mia fototrappola. Legato Pablo a un tronco caduto, non avevo scelta. Dovevo entrare in acqua così com’ero. L’apparecchio era già stato lì, in quell’angolino segreto, legato al solito albero, per diversi giorni e a casa avevo già pronto il primo spezzone, che ha come protagonista una faina attirata dall’odore del serpente morto, usato come esca. Se l’acqua fosse salita ancora di una decina di centimetri, la fototrappola era da buttar via. Nell’ultima scena, prima che il fiume esondasse, compare anche una volpe, attirata dall’odore del colubro in putrefazione, ma anche lei come la faina ha percepito il pericolo, poiché i serpenti, evidentemente, per lei sono pericolosi sia da vivi che da morti. Per i ricci, com’è noto, non è così, e nemmeno per i tacchini, entrambi nemici di tutto ciò che striscia. Quindi, in questo mini documentario, abbiamo il protagonista e il deuteragonista, cioè la faina e la volpe. E poi ci sono io, novello Sandokan, con il mio fido collaboratore Yanez de Gomera (che ho dovuto legare a un albero).
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